Adam Gopnik, perché il polpettone di mamma è inimitabile?


Adan Gopnik

 ADAM GOPNIK
IN PRINCIPIO ERA LA TAVOLA
GUANDA, pp. 350 – 22,00 euro

di Paolo Petroni
«Perchè il polpettone di mia madre resta senza eguali?» È una delle domande che si pone Adam Gopnik, giornalista americano del New Yorker vissuto a lungo a Parigi, affrontando in un libro la storia e il senso dello stare a tavola, del cibarsi, in questo curioso volume che pare fatto apposta per essere letto mentre le feste di fine anno sono alla fine e pranzi e cenoni famigliari sono cosa viva nel nostro ricordo.

 <Il sapore non si riesce a duplicare – risponde – Io ne ho la ricetta, ma da quando torno a casa dai tempi del college e lo mangio, quel gusto è solo lì. Perchè il cibo non è solo un alimento, è il luogo in cui lo assaggiamo, le persone che lo preparano per noi, il nostro modo di essere mangiando>.
Una riflessione che va benissimo come introduzione a questa lettura, che definire gustosa è vero quanto pleonastico, visto che inanella storie e aneddoti, riflessioni e citazioni, ricordi di cibi e di ristoranti (oltre a qualche ricetta, dal cosciotto di agnello al budino di riso alla crema) per costruire questo libro di memorie personali, attraverso le quali affronta i grandi problemi che tutto questo porta con sè, dalla scelta se sia meglio puntare sui cibi biologici e a chilometro zero o sulle elaborazioni raffinate in cui possono entrare anche ingredienti nati molto lontano l’uno dall’altro (cosa che del resto esisteva dal tempo del grande mercato delle spezie attraverso il Mediterraneo) al perchè in certi momenti, magari estremi (Gopnik cita la lettera di un condannato a morte in prigione), il pensiero del cibo si fa centrale, in modo che appare paradossale e talvolta inopportuno.

In principio era la tavola, Guanda

Gopnik non ha risposte definitive sui grandi interrogativi, se alla base c’è genuinità e buon gusto, e così dice »amo il cibo sofisticato, raffinato, ma non più di due tre volte l’anno« mentre sfata una accreditata leggenda sulla nascita dei ristoranti o ridicolizza la moda di essere esperti di vino e discutere di gran Cru senza poi saperli davvero riconoscere.
Cita Rebecca Spang che racconta »una bellissima storia, ma falsa«, su come i ristoranti siano nati dopo la rivoluzione francese, quando tanti cuochi rimasero senza padroni (padroni ormai senza testa) e, per sopravvivere, aprirono locali pubblici, che invece esistevano da ben prima.
«È singolare che da nessun testo sul vino – annota l’autore ad un certo punto – un marziano verrebbe a sapere che il primo motivo per cui la gente beve vino è ubriacarsi. Leggendo quei testi il vino appare uno dei tanti alimenti di lusso come il salmone affumicato o il caviale o il cioccolato».
E non lo scrive per dare giudizi morali, ma solo da attento osservatore di cosa sia e come venga percepito oggi il vino:«fin dall’inizio il vino e la cultura del vino sono stati una tappa intermedia tra il sacramentale e il sociale».
Uno degli elementi che rende la storia culinaria (compresa questa), che rende «la ricostruzione di come la gente preparava da mangiare e mangiava, diversa da altre narrazioni del passato, è che essa ha come oggetto qualcosa che continua svolgersi tutti i giorni e per tutti».
La verità è, come gli disse una volta lo chef londinese Fergus Henderson del St. John, che non si capisce  «come faccia una giovane coppia a cominciare la vita insieme comprando un divano o un televisore. Non lo sanno che la tavola viene prima di tutto?»>, anche prima del pranzo e della cucina:la tavola è il principio, è l’ultimo focolare della vita famigliare. (ANSA).

*Ho solo una osservazione da fare a margine di questa recensione. Quando l’autore Adam Gopnik dice di non capire come mai in nessun testo c’è scritto che il vino si beve per ubriacarsi rivela inconsapevolmente il proprio approccio culturale tipico anglosassone. Perché per un latino il vino è un alimento e basta e mai a nessuno verrebbe in mente di cercare l’alcol nel vino. Che sia questa invece, la prima motivazione secondo Adam Gopnik rivela appunto l’approccio diversa cverso un bevanda che non appartiene se non di recente alla sua tradizione gastronomica, di qui la paranoia salutistica e i divieti incredibili, tra cui quello che non è possibile venderlo ovunque. Questo è anche il motivo, secondo me, per il quale la critica anglosassone ha spinto l’alcol in alto come valore positivo in un vino causando non pochi danni all’equilibrio e alla ricerca dell’eleganza. (l.p.)

Un commento

I commenti sono chiusi.