Amarone Opera Prima: l’annata 2017 alla prova dell’assaggio


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Amarone Opera Prima

di Raffaele Mosca

Ed è così che l’Amarone chiude la stagione delle anteprime vitivinicole, con un evento in pompa magna alla presenza di 100 giornalisti (di cui 80 stranieri). Una kermesse nella cornice di una Verona magnifica – anche se bollente! – che ha avuto, come momenti clou, la cena di gala al Giardino Giusti e la prima dell’Aida all’Arena, oltre ovviamente al Grand Tasting presso il Palazzo della Gran Guardia, nel corso del quale sono stati presentati gli Amarone dell’annata 2017.

Un investimento cospicuo che rende l’idea della potenza di fuoco di un consorzio che riunisce oltre 270 imbottigliatori, con un giro d’affari che supera i 500 milioni di euro l’anno. Numeri importanti per un territorio con una tradizione molto antica: il nome Valpolicella deriva, infatti, da polis-cellae, ovvero “molte cantine”, appellativo latino già presente in un documento della corte di Federico Barbarossa del 1177. Ritrovamenti di resti di ville romane tra i vigneti testimoniano , però, una storia che precede addirittura gli sviluppi in epoca medievale. E, in effetti, anche sul fronte letterario abbiamo tracce di un vino dolce chiamato Acinatico che era prodotto in queste zone e godeva di grande fama nei primi secoli dopo Cristo. Cassiodoro, letterato e politico vissuto nel periodo del regno ostrogoto, lo richiedeva in una lettera al canonicarius delle Venetiae per rifornire la corte del re Teodorico a Ravenna.

Eppure, l’exploit di successo della zona, foraggiato dall’ascesa sui mercati internazionali dell’Amarone, è storia relativamente recente.  L’Amarone nasce, infatti, nel 1936, dall’ “errore” di un enologo della cantina sociale di Negrar che aveva lasciato il Recioto – discendente dell’Acinatico – a fermentare fino a raggiungere zero di babo. Al 1939 risale la prima bottiglia e il 1968 è l’anno dell’istituzione della DOC.  Ma il vero boom lo si ha solamente negli anni 90’, con i primi punteggi elevati attribuiti dai critici internazionali a vini di pionieri come Bepi Quintarelli e Romano Dal Forno. Le statistiche mettono ben in evidenza questo cambiamento di passo: nel 1994, la produzione di Amarone rappresenta solo il 4% della produzione della Valpolicella; nel 1998 dopo l’attribuzione dei primi grandi riconoscimenti, la quota si raddoppia, per arrivare in tempi recenti ad oltre il 20% del totale.

Oggi l’Amarone è di gran lunga il rosso più rappresentativo del Veneto: forte di circa 20 milioni di bottiglie commercializzate ogni anno, con un prezzo medio tra i più alti in Italia – anche a fronte di qualche svendita saltuaria in G.D.O. – e una crescita del 16% delle vendite su base annua. Tuttavia,anche un colosso di questa portata, solido come una colonna dorica sul fronte commerciale, rischia di risentire dell’evoluzione del gusto. Il primo problema dell’Amarone in quest’epoca è il grado alcolico derivante dalla concentrazione degli zuccheri con l’appassimento: difficilmente se ne trovano versioni che fanno meno di 15 gradi e le più spinte possono tranquillamente superare i 17. Con il cambiamento climatico queste caratteristiche si esacerbano, e il rischio è che i vini finiscano per essere percepiti come troppo pesanti e non spendibili a tavola, a meno non si scomodino pesi massimi come la famosa “pastissada de caval” veronese.

L’altra grande questione è quella del metodo: l’evoluzione del mercato del vino ha portato i consumatori a fare dei cosiddetti “vini di terroir”, manipolati il meno possibile, un vero e proprio feticcio. Non che l’Amarone non sia radicato nel territorio – proviene pur sempre da uve autoctone – ma la percezione generale è che l’appassimento limiti l’espressione delle sfumature delle varie sottozone, rendendolo un vino di metodo che tende inevitabilmente all’omologazione. Il Consorzio ha provato a combattere questo stereotipo con una masterclass guidata dall’esperto locale Davide Scapin Giordano insieme dello chef Nicola Portinari del bistellato La Peca di Lonigo (VI). Un esperimento che, in effetti, ha sfatato alcuni dei preconcetti di cui sopra: l’appassimento, infatti, può essere fonte di diversità e non di appiattimento; dà adito a interpretazioni diverse e contrastanti e rende possibile l’accoppiata con cibi che altri rossi da uve tradizionali non potrebbero mai sposare. Esempio lampante è quello dell’ anguilla laccata con anguria e angostura proposta in accoppiata ad un Amarone “reciotato:” piatto dai sapori forti, piccanti e agrodolci, tendenzialmente non facile da abbinare al vino. La morbidezza data dall’appassimento ha avuto un ruolo cruciale nel bilanciare le note più dure, restituendo un effetto vellutato, con il ritorno speziato che è andato ad amplificarsi, mentre frutto ed alcol hanno stemperato le durezze in eccesso.

Scapin ha anche individuato quattro tipologie di diverse tipologie di Amarone legate ad altrettante sfumature stilistiche, ovvero:

1)   “elegante”, vale a dire giocato in sottrazione, con un alcol tendenzialmente più basso, un appassimento gestito in maniera da essere meno preponderante, una freschezza anche vegetale che dà slancio. Sono vini molto apprezzabili ed abbinabili in gioventù che, però, in alcuni casi, perdono  definizione nel lungo termine, come se “sottraendo” diminuisse anche il potenziale evolutivo.

2)    “reciotato”, ovvero molto spinto sulle note da appassimento, che sulle prime potrebbero far pensare a un vino da dessert. Uno stile molto in voga a cavallo tra anni 90’ e primi anni 2000, portato avanti con coerenza e perseveranza da produttori come Romano Dal Forno, che ne ha fatto la chiave del suo successo. Danno adito a pareri contrastanti: considerati demodè da una parte di critica e consumatori, amati e ricercati da un’altra. La verità, a mio modesto parere, è che nel tempo si scrollano di dosso parte della loro opulenza e superano per potenziale evolutivo gli Amarone fatti in sottrazione, mantenendo freschezza e vitalità sorprendenti. Provare una qualsiasi annata vecchia di Monte Lodoletta di Dal Forno per credere.

3) “austero”, ovvero non privo di una certa potenza estrattiva, ma dotato anche di acidità più in lizza e tannini forzuti che smorzano la mole di frutto derivante dell’appassimento. Gli Amarone della zona classica – ovvero dei comuni Sant’Ambrogio in Valpolicella, Fumane, Negrar, San Pietro in Cariano – si prestano particolarmente a questa declinazione, che generalmente rappresenta il miglior compromesso tra potenza e scorrevolezza.

4) “potente”, diverso dal reciotato perché giocato meno sull’appassimento e più su di una concentrazione impetuosa di aromi terziari, spesso per merito di un affinamento in bottiglia più lungo. Sono vini non facili, tutto meno che leggerini, ma spesso capaci di stupire per potenza evocativa e stratificazione aromatica.

Dopodiché quest’anno c’era anche il fattore annata a scombinare le carte e a rendere la stilizzazione ancora più evidente del solito. In Valpolicella, come nel resto d’Italia, l’annata 2017 ha dato seri grattacapi ai produttori: è iniziata con una gelata che ha bruciato una parte,  è proseguita con un’estate bollente, siccitosa, per concludersi con una vendemmia molto precoce . Il risultato è uno scenario altalenante con vini che, in certi casi, nascondo sotto la coltre di frutto tannini asciutti, toni vegetali e finali ammandorlati che fanno pensare ad una maturazione non perfetta delle uve. A questi si aggiunge qualche vino che, già all’esordio, mostra tracce di evoluzione.

Ovviamente, però, di vini validi ce ne sono diversi e mostrano il know how importante acquisito dai produttori piccoli e grandi della Valpolicella.

 

Ecco i cinque che ci hanno convinto di più:

Ca’ La Bionda – Ravazzol

L’epitome dell’Amarone “elegante”, prodotto in sottrazione: ha un profilo fine, con toni composta di mirtilli ed erbe officinali, inchiostro, cacao in polvere e un tocco fumè. Rinuncia ai muscoli in favore di uno sviluppo compassato, vellutato, giocato sul frutto dolce, ma non sovramaturo, con un cenno vegetale di fondo che rinfresca, acidità in lizza, e, soprattutto, una vena minerale, quasi ematica che stempera le morbidezze e allunga il sorso. Un perfetto compromesso tra potenza e finezza.

 

Terre di Leone – Il Re Pazzo

Sulla linea del Ravazzol, ma con una personalità più esuberante, speziata e balsamica ancor prima che fruttata. Svela in sequenza aromi di curry, cardamomo, bacche di ginepro, liquirizia e gelsi maturi. Le spezie tornano a far da cornice a un sorso ritmato da acidità infiltrante e tannini fitti che smorzano il frutto. Chiude lungo, pepato e inchiostrato. A metà strada tra elegante e austero.

 

Villa San Carlo

Si sale di grado nella scala che va dall’elegante al Reciotato. Questo è decisamente più ricco dei precedenti, anche più segnato dal rovere d’affinamento che aggiunge toni balsamici e di cannella al quadro incentrato su marasca e susina non troppo matura, cioccolato amaro e pot-pourri di fiori rossi. Ha polpa, materia, uno sviluppo complessivamente più “curvy”, ma anche acidità tonica che dà sostegno, tannini abbastanza forzuti che accompagnano la progressione fino al finale lungo su toni di visciole e d’agrume.

 

Secondo Marco

La quintessenza dell’Amarone “austero”, proveniente da vigne in quel di Fumane, nel cuore della Valpolicella classica. Sa di terra bagnata, scatola da sigari, erbe officinali, e poi di rose e di confettura di visciole. Il sorso fa forza sull’acidità e su di un tannino arrembante che dà forza a uno sviluppo grintoso, relativamente poco concessivo in questa fase, ma con potenziale a lunga gittata non indifferente.

 

Massimago

Cupo, materico: sa di carne grigliata, scatola di sigari, nocciole tostate, con una parte fruttata abbastanza fresca – ma scura – che emerge gradualmente. Ha peso, struttura, volume, calza a pieno nella categoria dei “potenti”, ma non eccede in dolcezza, anzi è asciutto, tannico al punto giusto, con acidità ben profilata che emerge progressivamente e calibra il finale misurato, avvolgente, con materia importante (ma non ostentata). Ben fatto!

 

Ilatium Morini – Campo Leon

Il “reciotato” nella sua accezione più interessante: sfoggia un naso potente, esuberante, con tracce di ciliegie sotto spirito, prugne, sottobosco, caffè e un soffio d’incenso. E’ massiccio e muscoloso, carico di materia fruttata da appassimento e ulteriormente irrobustito dalla cornice del legno. Ma riesce a stare in piedi grazie all’acidità intonsa e  al tannino incalzante, richiamando per equilibrio tra struttura e verve un mostro sacro come il Monte Lodoletta di Dal Forno.

 

Un commento

  1. Un po’ di attenzione ai termini.Per imbottigliatori nel “gergo”del vino si intende il grossista che compra i mosti per poi commercializzarli (motivo per cui le famiglie storiche sono uscite dal consorzio)tant’è che i nostri cugini francesi per indicare i viticoltori aggiungono la felice doppia
    definizione di RECOLTANT MANIPULANT riguardo alla produzione del loro prodotto d’elezione qual è lo Champagne FM

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