Anteprima Taurasi, l’articolo sul Corriere Vinicolo


Taurasi

Con questo articolo è iniziata la mia collaborazione con il Corriere Vinicolo diretto da Marco Mancini

L’appuntamento per gli operatori e gli appassionati è per il primo fine settimana di marzo. Sabato 6 e domenica 7 nel Castello Marchionne si svolge infatti la settima edizione di Anteprima Taurasi nel corso della quale sarà assegnato il rating all’annata 2005.
Mai come in questa occasione, la scelta di assegnare le “stelle” al millesimo in commercio piuttosto che all’ultima vendemmia si presenta come un criterio valido e più affidabile perché la vera partita si è giocata in cantina ed è molto difficile fare una generalizzazione su come siano andate le cose. C’è chi è entusiasta è parla di annata superiore alla 2004, a cui sono state date le cinque stelle, e chi invece commenta vini sostanzialmente magri e meno espressivi. Sicuramente la 2005 si presenta complessa per l’andamento climatico abbastanza irregolare, con piogge tra settembre e la metà di ottobre, per cui chi ha potuto aspettare, cioè nelle zone più alte o fresche nelle quali la maturazione è più lenta, si è ritrovato a lavorare con uve di qualità indiscusse con i parametri al posto giusto. In altri casi, invece, la verità della bottiglia è affidata alla capacità di risolvere in cantina i problemi creati dalla stagione. Insomma, un’annata a macchia di leopardo che sarà molto interesaante da scoprire e da valutare, sicuramente più affascinante della 2004, con un dimagrimento che di questi tempi sicuramente fa solo bene viste le nuove tendenze che rifuggono dall’eccessiva concentrazione e dalle marmellate spinte.
Ma inanzitutto verrebbe da partire con l’incipit di un famoso articolo scritto da Eric Asimov alla fine dello scorso del settembre: “Si riaprono le scuole e noi dobbiamo imparare una nuova parola: Aglianico”. Già, perché se è vero che gli intenditori e gli appassionati conoscono bene questa uva e le sue potenzialità, non si può non osservare come ancora sia sconosciuta al grande pubblico.
Riassumendo e banalizzando, possiamo dire che l’Aglianico è uva tipica dell’Appennino Meridionale in una zona delimitata sia al Nord che al Sud da due vulcani spenti, rispttivamente quello di Roccamonfina e il Vulture, entrambi famosi, soprattutto, per le acque minerali. Si è acclimatato da tempo immemorabile in questi territori segnati da violente escursioni termiche, molto freddo, con neri terreni vulcanici spesso argillosi. Un’uva difficile, poco prolifica e soprattutto tardiva perché la vendemmia in queste zone inizia, anche quando è anticipata come nel 2003, intorno alla metà di ottobre, ma il momento clou è rappresentato nei giorni a cavallo tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre, tanto che non sono affatto rare le immagini dei grappoli coperti dalla neve. I tannini abbastanza resistenti e difficili creano non pochi problemi in cantina, in genere risolti alla buona con taglio abbondante di uve a bassa struttura come il piedirosso e lo sciascinoso. Non è un caso che il disciplinare del Taurasi prevede espressamente, a differenza di altre docg, la possibilità di utilizzare sino al 15 per cento di altre uve a bacca rossa autorizzate in provincia di Avellino.
Un margine di manovra sicuramente saggio e lungimirante dal punto di vista normativo, visti i problemi sorti in altri territori, ma raramente esplicitata in etichetta o ammessa a voce perché la “dittatura ideologica” della cultura sul monovitigno affermatasi in Italia alla fine degli anni ’90, e ormai quasi sovrana, non lo consiglia commercialmente. Una delle tante stranezze in cui siamo immersi priva di spiegazione logica in quanto il blend è da sempre la prassi vitivinicola più naturale ed efficace per compensare i diversi andamenti stagionali e la loro influenza sulle uve segnate da diversi tempi di maturazione e caratteristiche.
L’Aglianico è fondamentalmente diviso in tre grandi aree di produzione: il Taurasi, il Vulture dove invece la cultura monovitigna è realmente radicata nella tradizione territoriale, e nel Taburno dove invece si sta affermando negli ultimi anni. Una docg e due doc, insomma, anche se questa uva è ben presente in tutte le doc a bacca rossa campane, naturalmente in Basilicata, spingendosi sin nel territorio di Castel del Monte in Puglia e in Molise. Potremmo dire che quando, negli anni ’60 e ’70,  il parametro di interesse produttivo era la prolificità dell’uva, i vitigni viaggiavano dall’Adriatico al Tirreno mentre adesso si registra il fenomeno inverso grazie al successo commerciale, oltre che dell’Aglianico, anche del Fiano e della Falanghina.
Il vero fascino dell’Aglianico è nella sua capacità di attraversare il tempo: una testimonianza al momento resa possibile solo grazie alle vecchie annate di Mastroberardino che per decenni è stato l’unica espressione commerciale del rosso irpino insieme a Struzziero a Venticano. Solo nella cantina di Atripalda, però, si sono conservati gli antichi millesimi, tanto da poter essere ancora regolarmente venduti.
Del resto la viticoltura irpina ha conosciuto la sua svolta appena all’inizio negli anni ’90: basti considerare che gli imbottigliatori registrati alla Camera di Commercio sino al 1990 erano appena dieci, mentre oggi sono oltre 150.
Dunque al momento solo grazie alle aziende storiche, Mastroberardino in Campania e Paternoster in Basilicata, è possibile affermare che bottiglie di oltre vent’anni possono essere aperte e bevute con estrema naturalezza e senza alcun accorgimento particolare. Le successive esperienze maturate in seguito confermano questo dato perché tutte le etichette riposte in cantina e bevute dopo un lungo periodo rivelano vini ancora giovani a distanza di cinque, sei anni, appena maturi quando si supera il decennio.
L’impegno di enologi di fama, l’innovazione tecnologica in cantina, le tecniche aggiornate di conduzione del vigneto, consentono di poter parlare di piena maturità produttiva delle aziende e di un successo commerciale  notevole anche all’estero dove questi rossi hanno il pregio al tempo stesso di essere low cost e assolutamente tipici e di territorio, caratteristiche sempre più ricercate soprattutto sui mercato anglosassoni. Oggi il prezzo medio franco cantina oscilla tra i 10 e i 15 euro, mentre la forbice più allargata va da un minimo di 9-10 euro sino a 30-35 con un paio di eccezioni a salire.
Cosa serve a questo vino per la consacrazione capace di traghettarlo dall’interesse di mercato contingente all’essere una grande zona di radicata tradizione?
Sicuramente la profondità commerciale. Manca ad esempio uno studio di zonazione e si va ad orecchio o ci si basa sull’esperienza, tutto sommato recente, sulle capacità espressive dei diversi punti dell’areale docg. Inoltre sono pochissime le aziende che hanno avuto la forza e la lungimiranza di crearsi un archivio storico per poter fare verticali o anche semplicemente per venderle. Dunque la capacità di marcare le differenze, ad esempio tra le vigne più alte e quelle più basse, tra i punti freddi e quelli caldi, tra un anno e l’altro, è soprattutto affidata ai singoli collezionisti. Insomma, una tradizione di territorio di cui si sta scrivendo appena adesso il primo capitolo.

Corriere Vinicolo del 23 febbraio 2009