Autoctono, un desiderio che trasfigura la realtà


Nell’inserto speciale dedicato a Vitigno Italia abbiamo ospitato questo intervento di Marino. Ve lo proponiamo come spunto di riflessione e approfondimento.


Nulla è originale e puro, ma nasce dal viaggio e dalla contaminazione
di Marino Niola*
In principio furono i popoli, poi vennero cibi e vitigni. E l’autoctonia da designazione etnica e sociale diventò denominazione enogastronomica. Un modo per rivendicare l’antico radicamento territoriale di tradizioni e produzioni, una certificazione d’origine insomma. Come dimostrare che la natura ha voluto fare un dono particolare a chi abita certi luoghi, che una terra ha voluto premiare i figli nati dal suo grembo concedendo loro in esclusiva, e dall’inizio dei tempi, i frutti del suo ventre.
L’Asprino agli Aversani, il limone sfusato agli Amalfitani, il piennolo ai Vesuviani, il Fiano agli Irpini, il per’e palummo agli ischitani, l’aglio agli afragolesi, le mele annurche ai giuglianesi, le olive ai gaetani. In realtà si tratta di miti d’origine quasi mai confermati dalla storia. Che, interrogata con animo spassionato, senza campanilismi e senza mercantilismi, ci dice l’esatto contrario.

E cioè che l’autoctonia è un mito sia sul piano etnico che su quello enogastronomico. E che la storia della gastronomia, come la storia tout court, è frutto di migrazioni, di mescolanze, di prestiti. Perché quel che lega un cibo a una terra – proprio come quel che lega un costume a un popolo – non è la nascita ma l’adozione. E soprattutto la dedizione che gli abitanti di un territorio hanno messo nel far propri un cibo, una pianta, una razza animale nati altrove.
A pensarci bene, la maggior parte delle cosiddette tipicità alimentari, quelle che fanno il vanto di un paese e trasformano la terra in terroir, vengono da fuori. Qualche volta come immigrati clandestini, guardati con diffidenza e tenuti ai margini della cucina prima di conquistare le glorie della tavola e di finire, come accade oggi, canonizzati dal dop. L’esempio del pomodoro è troppo perfetto per non ricordarlo.
Dalle conserve che gli Aztechi vendevano al mercato di Tenochtitlan tremila anni prima della scoperta dell’America – quando noi eravamo ancora al formaggio di capra e Polifemo tirava sassi ai ladri di cacio come Ulisse – al San Marzano dop il passo non è breve. Ci sono voluti tremila anni per reinventare il triplo concentrato che i precolombiani conoscevano benissimo. E prima di convincerci della sua bontà ed essere promosso al rango di pummarola il povero pomodoro ne ha passate di cotte e di crude. Piazzato sui davanzali come un inutile tronchetto della felicità o regalato alle dame della cortte del Re Sole come dichiarazione d’amore. Pianta ornamentale o pianta ruffiana, tutto tranne che commestibile. è solo nell’Ottocento che la salsa rossa trionfa sulla pasta.
Altra gloria nostrana che ci viene un po’ dagli Arabi un po’ dai Cinesi. Stessa cosa si può dire delle piante americane come i peperoni, che Colombo dopo averli assaggiati giudicò incommestibili, e della patata, che nessuno si sarebbe sognato di mangiare fino a quando Monsieur Parmentier non la sdoganò aprendo così la strada alle francesissime frites – che Roland Barthes considerava un emblema della francesità – e ai napoletanissimi gattò e crocchè. Senza dire delle asiatiche melanzane, o delle orientali narany destinate a diventare arance o addirittura purtualli, ovvero portogalli perché i Portoghesi dalle loro colonie indiane li diffusero massicciamente in Europa. Come si vede la storia dei prodotti autoctoni è fatta di contaminazioni e di migrazioni.
Ma, quel che veramente conta, soprattutto di integrazioni. Perché quando un popolo fa proprio un cibo sparisce ogni differenza tra figli e figliastri. E spesso l’adottato si mostra più fedele alla nuova terra dei suoi figli legittimi. Esattamente come le parole nuove che entrano in una lingua e dopo qualche tempo appaiono termini originali. L’autoctonia stricto sensu non esiste ma poco importa. è bello pensare che esista se ci aiuta ad essere quel che siamo attraverso i cibi che mangiamo e il vino che beviamo.

*antropologo

Dal Mattino del 16 maggio 2009.