Ferran Adrià: “Il genio in cucina non basta senza un business plan”


Ferran Adrià

di Giulia Gavagnin

Preannunciati colpi di scena.

Cercherò di essere sintetica il più possibile: se è vero che la semplicità è lusso, la sintesi è vita.

La scorsa settimana il più grande cuoco del passaggio tra il Secolo Breve e i Duemila, il catalano Ferran Adrià, è stato ospite di due importanti eventi tra Parma e Torino.

L’inaugurazione del XII^ Anno Accademico di ALMA, preceduto da una sontuosa cena predisposta da “amici stretti” della nota accademia di cucina; e il premio dedicato a Bob Noto, il famoso fotografo e intellettuale del cibo torinese prematuramente scomparso nel 2017, che con la sua sensibilità e intelligenza ha influenzato direttamente la cucina di El Bulli nonché delle avanguardie di quegli anni.

Dello svolgimento dei due eventi –affatto diversi- hanno già scritto colleghi più bravi di me. Ne approfitto, però, per saltare i particolari di mera cronaca per centrare il punto: il messaggio complessivo lasciato da Ferran Adrià.

La cena che ha preceduto l’evento a Parma, tenutasi presso il nuovo ristorante di ALMA a Colorno, Convivio Quarantatre, è stata officiata da alcuni dei maggiori rappresentanti della tradizione italiana, taluni addirittura trattori (parte della più luminosa associazione nazionale, quella delle Premiate Trattorie Italiane). Che significa: nessuno “stellato”. Vecchia Marina, Nonna Rosa, Pepe in Grani, Ai Due Platani, Il Peposo, Andrea Tortora… E, infine, Diego Rossi di Trippa a Milano, che il giorno seguente sul palco del teatro Paganini di Parma è stato protagonista di un’esibizione con il sottofondo dell’ensemble di ottoni “Arrigo Boito” del conservatorio cittadino, recitando una pièce di Cesare Pavese sul senso di trovare “un luogo” per noi, per l’essere umano ramingo che infine come Ulisse deve tornare a casa, qualunque essa sia.

Adrià, durante la sua prolusione, ha dichiarato che Trippa è uno dei suoi luoghi preferiti al mondo.

Cosa significa tutto ciò?

A essere un po’ cattivelli, che il grande chef catalano dica un po’ “après moi le deluge”, che dopo la chiusura di El Bulli nulla sarà mai come prima, che il suo lavoro “mentale” ormai non può che essere condensato nella maestosa enciclopedia sulla gastronomia in itinere, elaborata con il metodo “sapiens” e edita dalla sua Fondazione, che ormai tanto vale tornare alla trattoria.

Tuttavia, la realtà dei fatti indica che la chiusura di El Bulli, avvenuta nel 2011 non è casuale, o dovuta solo a fattori economici. Significa che Adrià ha dato sul campo tutto ciò che aveva da dare e che proseguendo, oltre che implementare il dissesto finanziario dovuto a una Società che fonda la ricchezza non sulla produttività, bensì sulla speculazione finanziaria, e quindi sul mondo delle élites internazionali, avrebbe solo copiato se stesso. Ha, pertanto, trasferito il suo lavoro dai piani di cottura ai brain storming con i docenti universitari, lasciando le sperimentazioni a successori che egli stesso ritiene di rilevanza minore (ricordiamo tutti quando disse: la Spagna ha creato un movimento, la Scandinavia un fenomeno temporaneo) e, infatti, il suo livello di creatività è stato da tutti ritenuto insuperato e, casomai, Redzepi e soci hanno solo fatto cose diverse.

Queste considerazioni si collegano direttamente alla lectio magistralis che Ferran Adrià ha tenuto davanti agli allievi di ALMA la mattina del 21 ottobre.

Ferran Adrià: ogni buon cuoco deve essere imprenditore

Dopo aver dichiarato che la gastronomia non può prescindere dalla cultura e dalla conoscenza e che la creatività deve sempre prevedere un metodo (è acclarato che egli abbia scelto il metodo sapiens), ha detto a chiare lettere che ogni cuoco deve essere anche un imprenditore e avere un piano chiaro fin dall’inizio. Un business model.

Non è la prima volta che lo sentiamo: via genio e sregolatezza, si alla regolatezza, ma anche senza genio, il talento è più che sufficiente e meno spaventoso, incute meno timore.

La sostenibilità è parte del business e, allora, di questi tempi dominati dalla finanza e dall’incertezza del capitale, sono necessari: conoscibilità del prodotto e redazione di un business plan professionale. Nulla di più, nulla di meno. Che, un po’, è la fine dello chef artista, la cui morte, invero, era stata annunciata già molto tempo fa. Sì allo chef artigiano-imprenditore, che è quello che fa quadrare i conti. In sostanza: meglio avere in squadra un bravo consulente finanziario che un sous-chef mirabolante, più o meno.

Sale sul palco un allievo di Alma, Ferran gli chiede: qual è il tuo progetto? Quanti coperti avrà il tuo ristorante? Quanti turni? Personale? Cosa vuoi dalla vita e dal tuo ristorante? Il ragazzo, Edoardo, risponde: far felice la gente che viene da me. Ferran lo incalza: ma se non fai prima un vero business model, non renderai felice nemmeno te stesso. Touchè.

E, no, non serve nemmeno dirlo. Ai ragazzi Adrià non ha parlato di ricette, casomai di ricerca dell’ingrediente. Che, ormai da anni, è il vero protagonista. Di qui, la cucina immediata della tradizione, che di quell’ingrediente si avvale nella sua purezza. La lode a Trippa a Milano, ne è logica conseguenza.

Dal business model, al “talento”, il tema che quest’anno ha segnato l’attribuzione del premio intitolato a Bob Boto, il geniale fotografo e intellettuale torinese, è un attimo.

Adrià chiude El Bulli nel 2011, Noto scompare prematuramente nel 2017. L’ho già detto e scritto in più luoghi. Con la scomparsa del fotografo torinese, termina definitivamente un’epoca. Quella della cucina che aveva cercato di farsi arte, della fotografia del cibo instagrammabile prima dell’avvento di Instagram, dell’elevazione dello spirito prima della ricerca ossessiva del piacere a tutti i costi in nome della serialità.

Questa ricerca del nuovo e del diverso, che connota tutti i periodi di rivoluzione (oggi viviamo nella restaurazione), trova spazio ogni anno in una colta commemorazione di Bob Noto che culmina con l’assegnazione del premio, inserita nell’ambito dell’inaugurazione della manifestazione “Buonissima”. Nella giuria di codesto premio, nato nel 2020 per volontà della moglie di Noto Antonella Fassio, ci sono, oltre a Fassio, Matteo Baronetto, Paolo Griffa, Marco Bolasco, Sara Peirone, Stefano Cavallito, Luca Iaccarino e, appunto Ferran Adrià.

Ad ogni edizione viene individuato un tema portante, che connotava la personalità di Noto. Dopo l’irriverenza (Andoni), l’ironia (gli Alajmo), la creatività (Redzepi), l’empatia (Mariella Organi), quest’anno è stato scelto, guarda caso, “il talento”.  Assegnato ad Alain Passard, per essere il cuoco (sintetizzo le motivazioni) “che incarna perfettamente l’importanza che hanno sensibilità, perseveranza, talento e visione alla guida di una cucina … mai schiavo eccessivamente della tecnica, dialoga con la materia .. alla sua tavola siedono politici e uomini della finanza ma anche giovani curiosi e appassionati gourmet.. il talento non ha dunque età, dimostrando che innovare è possibile quando oltre al cuore si esprimono carattere, costanza, e amore  per quello che si fa ogni giorno: restando in cucina”.

Leggo bene: restando in cucina.

E’ il talento espresso attraverso l’artigianalità, che oggi è vieppiù richiesta da chi pratica questo mestiere, ritenendo il sigillo finale impresso dal creatore quale segno tangibile del talento dell’artigiano (non dell’artista).

E’ il pregio al lavoro quotidiano che deve trovare spazio e misura attraverso un progetto definito che non lascia spazio al caso, ma alla progressione e all’implementazione, sia che consista nell’eseguire il miglior vitello tonnato d’Italia (quello di Diego Rossi) ovvero la migliore oliva sferificata (temiamo che quel tempo, però sia trascorso).

Talento e regolatezza.

Benché non sia stata poi così sintetica, credo sia questo il lascito di Ferran Adrià nell’ultima sortita italica.

 

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