I pezzari e le grandi griffe


Appunti critici alla ideologia dell’autenticità

Vi siete mai chiesti chi fa le scritte sui muri? Boh, appaiono improvvise e poi vengono cancellate. Poi riappaiono. La rete è bella, per parafrasare un esempio di Fabio Rizzari, perché ti consente di vedere e seguire chi è dedito a questo genere di attività, ossia, in mancanza di una sua omogenea capacità di elaborazione critica, subentra agli individui infimi o vigliacchetti la possibilità di sfregiare, sporcare, insultare un monumento o una persona. Come le scritte sui muri, tu puoi supporre l’autore, ma per incastrarlo dovresti metterti paziente come un pescatore e aspettare, aspettare, poi ti rendi conto che il costo non vale il risultato e lasci perdere: ci sono sempre state da quando l’uomo ha costruito il primo muro, figuriamoci, basta girare a Pompei o in qualsiasi area archeologica per verificarlo.
Però, però. Le scritte, le incisioni, sui muri sono pulsioni vere, reali, come quando ti senti invincibile laggiù, moti di pensiero incapaci di diventare ufficialità, governo degli accadimenti, eppure in grado di influenzare e determinare perché, appunto, espressione di qualcosa che esiste e si muove nella società, nella testa di alcune persone. Sono in realtà la reificazione delle chiacchiere e dei pettegolezzi, due armi che, come ben sanno i politici, sono estremamente utili in clima di Basso Impero (Valter e/o Silvio) per conseguire risultati.
Ma torniamo a noi. Il mio cammino nella rete è recente, a gennaio appena quattro anni, ma solo da un annetto ho potuto approfondire alcune dinamiche, spinto dal crescente seguito del sito e dunque dall’assunzione di responsabilità verso i suoi lettori: sono lentamente scivolato dalla informazione ufficiale, quella che resta per sempre negli archivi, spesso materia da avvocati o studenti universitari, alla immediata meravigliosa spontaneità dei blog e della critica. La prima volta che ebbi percezione della potenzialità del mezzo, della rete, nonostante la sua scarsa diffusione, fu con gli articoli di Ziliani contro Enzo Ercolino sulla questione del Patrimo ed è per questo che ho grande rispetto per lui anche se raramente lo condivido.A quei tempi, parliamo di pochi anni fa ma sembrano decenni, nessuno avrebbe mai pubblicato quei pezzi non per censura, ma perché semplicemente la questio non poteva entrare nella stampa generalista (vai a spiegare ad un caporedattore la differenza fra aglianico e merlot) né in quella specialista, ma la loro efficacia fu incredibile, vuoi per eccezionale e fortunata vis polemica dell’autore, vuoi perché il bersaglio era davvero confortevole da colpire. Apparve evidente alla fascia acculturata dei consumatori la giustezza della tesi di fondo di Franco e, nonostante i forti rapporti di Ercolino con l’informazione ufficiale e accreditata, la sua posizione filtrò ogni ostacolo e divenne luogo comune. Oggi chi pagherebbe un Patrimo 100 euro?
Questo successo della rete nel settore della critica enologica non ha avuto il seguito prevedibile, almeno al momento, un po’ per colpa della crisi del mondo del vino a seguito della tragedia delle Twin Towers, un po’ perché, mio parere, il gusto della polemica ha finito per sostituire i contenuti stessi delle discussioni: insultare è facile, tutti possono farlo, fare giornalismo d’inchiesta usando la rete è un po’ più difficile perché il mezzo virtuale di comunicazione non annulla la necessità dell’essere impegnato fisicamente a girare e raccontare. Sul giornale, la tv, la rete, il punto è sempre lo stesso: bisogna muoversi, documentarsi e studiare per poter avere delle cose da dire, come sosteneva il mio anziano maestro: due orecchie per sentire e una sola bocca per parlare. La settimana scorsa a 50 anni suonati, ero alle 8 di mattina a zero gradi, impossibili per me vissuto sempre in riva al mare, dai fratelli  Urciuolo e pensavo a quanti sfottò avrei ricevuto dai miei colleghi di stanza al giornale! Questo senso di frustazione culturale per non essere riusciti (al momento, questo è il punto) a cambiare le cose, la capacità mostrata dai comunicatori tradizionali nell’impossessarsi del nuovo mezzo, parlo della rete, ha incattivito un po’ l’ambiente negli ultimi tempi. Spesso il rigore investigativo e critico ha lasciato il campo all’esercizio dialettico barocco (è dell’enologo il fin la meraviglia. Lanati o Marino? ) e cortocircuitato a se stesso con alcune gravi conseguenze quando poi il mezzo viene usato da dilettanti, spesso in difficoltà con l’ortografia. In poche parole, la rete nel suo complesso rischia di candidarsi a rappresentare una marginalità invece di governare il settore come potrebbe e dovrebbe fare vista l’immediatezza del mezzo e la sua crescente potenza. Questo problema è stato di recente sollevato da Roberto Giuliani ed è proprio dal suo interrogativo di fondo che ho iniziato a fare alcune considerazioni che presto svilupperò. I motivi al momento che ho individuato sono due e provo a sviscerarli.
Il primo è strutturale: la quantità di questo mezzo è di gran lunga inferiore a quello dei media tradizionali. L’articolo in cui Franco, con lusinghiere parole di cui gli sono grato e che ricambio, mi poneva due interrogativi ha comportato il trasferimento diretto dal suo al mio sito di appena 49 visite il primo giorno sulle 1300 complessive da pc unici (il termine esatto è visitatori ben distinto da visite: ad esempio il signor X potrebbe aver visitato anche 12 volte in un solo giorno con una media di 4,2 minuti il mio sito, ma è considerato pc unico), di 30 il secondo, 15 il terzo. Per me questi dati sono molto significativi e mi inducono a riflettere: qualsiasi radio locale, o giornale o tv avrebbe avuto un effetto molto diverso sull’implementazione del traffico come ben si vede quando il sito esce su un media tradizionale. Questo significa che il mezzo internet, usato dalla metà degli italiani, è ancora ai primi passi, soprattutto quando si parla di segmenti così specialistici e così settoriali. Questo è il motivo, benedetto sia Google Analitycs messo 25 giorni fa dopo uno scambio di mail con Filippo Ronco, per cui non ho risposto subito preferendo mantenere il programma settimanale di pubblicazioni. Insomma, non dico che se mi avesse fatto una mail sarebbe stato la stessa cosa, ma poco ci manca. E credo uguale sarebbe, sarà, il percorso inverso nonostante il nostro pagerank (perdonatemi lettori, non lo faccio più) sia considerato abbastanza alto, cioé cinque. Alto per la rete significa dunque insignificante per la più piccola delle tv locali che raggiunge 300.000 contatti in un solo giorno e senza sforzi.
Il secondo è ideologico, ed è quello che più mi interessa sviscerare. Sì, voglio andare fino in fondo. In Italia grande è un aggettivo immaginifico ma tutto sommato rientra nella categoria delle negatività più che delle positività. E’ la storia del nostro meraviglioso paese, della nostra Patria, nasce questa cosa dal Rinascimento, quando l’Europa costuiva la statualità nazionale noi commerciavamo e, dunque, dunque, potevamo fare arte e poesia. Piccolo è bello, è naturale, è autentico, è sincero, è angelico, è esteticamente impegnativo ma insuperabile. Grande è cattivo, prepotente, brutto, omologato, luciferino, da parvenue. Queste idee sono profondamente sbagliate e sono il motivo della nostra progressiva arretratezza rispetto ad altri popoli. Personalmente io resto smarcato e un po’ incredulo da alcune critiche piovute, proprio in rete (e chi potrebbe metterle su carta…), a Pierangelini, o da quelle ad Angelo Gaja: cioé si demolisce il meglio che il nostro paese, la Patria, è capace di esprimere. Attenzione, non dico che non sono criticabili, ma una cosa è dissertare sulla luce della Gioconda e un’altra dire che fa schifo. Come è possibile? Mi chiedo perché la rete, o parte di essa, delega alla rappresentazione ufficiale della realtà la consacrazione di certi risultati e arriva invece persino a gioire del fatto che i francesi e gli spagnoli sono più bravi, meglio, più riconosciuti? Dipende davvero dal Darmagi e dalla passatina di ceci e gamberi, cioé i due peggiori misfatti della storia italiana dopo le bombe sull’Italicus e a Piazza Fontana? No. Il punto è proprio nella relazione tra piccolo e grande, Macromega di Voltaire, ricordate? Se io vendo pezze, poniamo, a piazza del Mercato,  ho l’esatta percezione di quanto vale quel metro di stoffa, ne riconosco la qualità intrinseca di proteggermi dal freddo, di conservare il colore, o di darmi frescura nei giorni torridi e umidi. E mi rode molto vedere come la stessa stoffa, magari firmata Valentino, Ferrini (ma che c’entra?) venga considerata cento, mille volte rispetto al prezzo che io riesco a spuntare con difficoltà commerciando sul piccolo margine. Già, forse questo è il cuore del problema: da un lato la capacità indiscussa, biologica oserei dire, di valutare l’oggetto, il vino o il piatto (una passatina da 1 euro di valore di prodotto venduta a 30 sulla carta!), dall’altro il rancore psicofisico, io vetero-marxista non pentito ho preciso il termine da usare, cioé invidia di classe, per chi lo sa strutturalmente vendere meglio e diventa ricco e famoso per questo. Ecco allora come una banale condizione di mercato diversa e in qualche modo integrabile diventa invece lo scontro, non potrebbe essere diversamente nell’Italia formata sulla cultura cattolica e comunista, fra il bene e il male, l’autentico e la finzione, i buoni e i cattivi. Estetica ed etica si scindono, anzi, ciò che è bello o di successo è cattivo, falso, diventa brutto. Sì, è vero, quello lo vende cento volte meglio, ma perchè  è un truffatore, non perchè è bravo, magari si è messo d’accordo con quelli delle guide, ha corrottoVespa, il presidente della Repubblica, il Papa, il Padreterno. C’è una degustazione in Maremma? Il peggior vino sarà il Sassicaia! Quali annate? Ma tutte, cazzo. E nelle Langhe? Cribbio cos’altro se non il Barbaresco di Gaja? E in Campania? Ah, si, qua spopola Cotarella sodale a Cernilli e socio di Bagarella! Ma lo stesso, badate,  è al ristorante: Pierangelini? Beh, è amico di Bonilli! Vissani, non ne parliamo proprio, cucina male, malissimo, provate invece la trattoria di Michele a Panecuocolo che non risponde mai al telefono ma che fa una zuppa di fagioli unica, imperdibile, ci sono i bicchieri senza gambo e i tovaglioli di carta e il vino sfuso del papà! Questa sì che è autenticità italiana. Le stoffe facciamole fare ai bimbi indiani sottocosto. Il vino e la cucina sono in crescita grazie a questi loschi figuri? Figuriamoci, è tutto un imbroglio! Una volta io fui criticato in un post per essere buonista da un tale che usa come avatar (perdonatemi ancora cari lettori, sono in ginocchio) il simbolo della Salernitana, una squadra di calcio in serie C, la cui tifoseria è l’unica nella storia europea, forse mondiale, che abbia incendiato un treno facendo morire quattro ragazzi. Ci credo che per quel tipo buonista è una cattiva parola! Così, come nelle quadrature narrative del Manoscritto trovato a Saragozza (te lo consiglio se non lo hai letto Mauro Erro), si passa all’omologazione dell’orribile calice Riedel ai magnifici bicchieri di carta in un posto dove, evviva, non prende neanche il cellulare e la Tav non sarà mai costruita. Meglio farla nelle vigne di Montevetrano come stava davvero succedendo, no?
Bene: che la rete rifletta anche questo modo di pensare non deve stupire, ed è giusto, anzi, che si manifesti perché esiste nel paese dei novemila comuni e delle contrade. Ed è profondamente dentro Napoli sul cibo, dove la valutazione gastronomica, a differenza del vino dove si procede per marchi, è davvero sempre e unicamente centrata sulla qualità del prodotto. Tutte le classi sociali qui giudicano quel che mangiano per quel che è a prescindere dal marchio e dal nome della trattoria. In questo la città è profondamente diversa da Roma e Milano prive di identità gastronomica. Detto tutto questo in termini, se volete, sociologici e non riferito a questo o a quello in particolare, passiamo all’aspetto politico: bene, credo non sia accettabile culturalmente che persone di calibro e preparate rinuncino all’esercizio del governo di queste pulsioni.  Bonilli regala la sensazione di voler lottare per creare ordine in questo processo, la sua esperienza generazionale direi lo obbliga quasi a tentare, io credo sia difficile perché viviamo in un’epoca in cui ormai l’individuo in Occidente non riesce ad esprimere nulla che sia più grande della propria fisicità, al netto della Chiesa. Persino la vecchia statualità ottocentesca si frantuma, questo è il motivo per cui vincerà l’Oriente, cito Schmidt, il mio autore post-marxiano preferito, in cui non c’è la netta distinzione fra io e noi.
Faccio allora appello, l’ultimo, alla ragione generazionale di alcune persone mie coetanee per dire: non basta esaltare i vini che vi piacciono, bisogna tenere conto di tutta la filiera e capire che non c’è possibilità per i prodotti italiani senza grandi commercianti e comunicatori. E che il commercio, la comunicazione, non sono (solo) falsificazione della realtà, bensì, la sua piena valorizzazione, il regno della possibilità di ciascuno nel mercato mondiale. Credete che Molettieri avrebbe mai potuto ingrandirsi se non avesse esportato? O volete emulare San Girolamo, vox clamans in deserto di cui ho appena visto il quadro al Prado, circondati da un male immaginifico che voi pensate vi possa insozzare e che invece è, banalmente, semplicemente, stupendamente, la vita?