I segreti del Taurasi


Proprio come altri grandi rossi italiani, anche il Taurasi nasce su fredde colline spesso avvolte nella nebbia, un presente lontano dai grandi traffici commerciali, un passato lungo almeno duemila anni a cui ci riportano le prime notizie scritte, in questo caso le <vigne optime> citate da Tito Livio. E’ del novembre 1179 il primo documento scritto in cui viene citata la vite, quando si costruiscono le prime abitazioni la di fuori delle mura del Castello.
Parliamo di un Sud assolutamente estraneo all’oleografia ufficiale fatta di sole, mare e magari ancora pizza e mandolino: su questi campi dalla proprietà spezzettata sino all’inverosimile i contadini hanno costruito la propria sopravvivenza grazie al reddito proveniente dalla vendita delle uve utilizzando il metodo tradizionale a starza, una sorta di tendone, capace di dare alte rese per ettaro anche se di bassa qualità perché, diversamente dalla spalliera, le pigne non sono sempre esposte al sole. Clima rigido d’inverno, temperato d’estate, con una differenza costante di quattro, anche sei gradi in meno rispetto alla costa, buone escursioni termiche, un sapiente uso delle botti per conservare il vino nel corso dei mesi e degli anni in attesa di poterlo vendere. Insomma, una realtà esattamente opposta a Napoli dove invece il consumo iniziava già a dicembre per esaurirsi nell’arco di un anno tanto alta e continua era la domanda del mercato ai vinificatori impegnati alle porte della città. Il tempo del vino ha sempre separato il Sud metropolitano da quello agricolo.
Nasce su queste colline vicino Avellino segnate dai paesini poco abitati, scossi dalla furia del terremoto, ricostruiti in maniera deliziosa, la prima docg del Sud, rimasta anche l’unica per dieci anni: era il 1993, davvero in pochi credevano nel suo sviluppo, il senso comune ampiamente diffuso in Italia escludeva la possibilità di fare buoni vini nel Mezzogiorno. Il motivo non è difficile da intuire perché nel corso dei secoli la campagna meridionale è sempre stata il luogo della produzione, non del mercato. Tirando le somme, infatti, per quasi tutto il ‘900 la vendita qualificata di vino ha solo due nomi: Mastroberardino ad Atripalda e Struzziero a Venticano, cioé da un lato una famiglia con una solida tradizione commerciale nel vino lunga ormai undici generazioni e dall’altro un produttore-venditore più simile come tipologia a Ocone nel Sannio e D’Angelo nel Vulture.
La storia del Taurasi vive allora due momenti magici di successo. Il primo tra gli anni Venti e Trenta quando, insieme al Vulture, la produzione crebbe notevolmente per rispondere alla domanda del mercato nazionale rimasto quasi senza vino a causa della fillossera. In Campania, probabilmente grazie al terreno vulcanico, le viti si sono ammalate con molto ritardo rispetto ad altre regioni ed è per questo che i contadini, quando si trovarono di fronte a questo problema, non seppero reagire perchè avevano lavorato allegramente senza preoccuparsene minimamente. Così la devastazione delle viti quasi coincise quasi con la seconda guerra mondiale e, nel Dopoguerra, con la fortuna di altre colture che sostituirono quasi ovunque l’uva come il nocciolo.
Fu la scelta dei fratelli Angelo, Antonio e Walter Mastroberardino di proseguire nel loro lavoro, nonostante le difficoltà terribili di quegli anni, a salvare l’identità della vite irpina perché i contadini ebbero ancora una volta un punto di riferimento a cui conferire le loro uve di aglianico, greco, fiano e coda di volpe. Proprio come Paternoster in Lucania, Ippolito in Calabria, De Castris in Puglia, Tasca d’Almerita e Rallo in Sicilia, Lungarotti in Umbria, la famiglia Mastroberardino ha avuto il merito storico di fissare geograficamente l’esistenza di un’area nella mappa vitivinicola italiana per lunghi decenni, come ci ricordano bene le carte dei vini degli anni ’70 e ’80 nei ristoranti, e che culmina con il riconoscimento prima della doc e successivamente della docg. Già nel ‘700 la famiglia era proprietaria del palazzo ad Atripalda dove oggi ci sono sede e cantine. Nella seconda metà di quel secolo Andrea e Lorenzo si spostarono nella vicina Santo Stefano del Sole intensificando l’attività che ebbe una forte crescita grazie a Pietro e Sabino, figli di Andrea, e poi di Vito, figlio di Sabino. Basta farsi una passeggiata da quelle parti per ritrovare questi nomi e quella campagna, un piccolo esempio di come la velocità con cui viviamo è solo una pallida illusione di movimento rispetto ai tempi lunghi della storia che abbiamo appreso da Braudel. Michele, figlio di Vito, insieme ai suoi figli Giuseppe e Angelo ritrasferiscono la sede centrale ad Atripalda, grande centro commerciale, e nel 1880 la famiglia costituisce una sede a Roma per gestire le spedizioni di vino a Genova, Venezia e all’estero. Le attuali cantine subiscono una radicale ristrutturazione e la famiglia decide di abitare nel palazzo di via Mercato. Ma la data ufficiale per lo stato italiano dell’inizio dell’attività è il 1878, quando Angiolo Mastroberardino iscrive la società alla Camera di Commercio. Sarà nominato da Vittorio Emanuele III Cavaliere dell’Ordine della Corona d’Italia. Gli ultimi due decenni del secolo sono segnati soprattutto dalla esportazione verso gli Stati Uniti e in Sud America, il vino accompagnava gli emigranti e gli ricordava il sapore di casa contribuendo a conservare la propria identità. Quegli stessi emigranti che poi con il tempo sarebbero diventati classe dirigente in tutto il Nuovo Continente. Il resto è storia del Novecento: il treno delle uve che da Taurasi arrivava ad Avellino, la crisi della fillossera e della guerra, la lenta ripresa, poi il boom di questi anni.
Il secondo momento di successo del Taurasi, quello attuale, ha però anche un altro protagonista: l’aglianico. Già, perché il salto di qualità e la motivazione di interesse deriva proprio dalla valorizzazione dell’uva più importante del Mezzogiorno su cui è necessario soffermarsi un momento cominciando a definire l’areale. Il regno dell’aglianico nasce e termina tra due vulcani dove nascono alcune delle più diffuse acque minerali italiane, Roccamonfina a Nord, proprio al confine tra la Campania e il Lazio, e il Vulture al Sud. Sostanzialmente l’aglianico ha tre grandi storie in bottiglia: il Taurasi in Irpinia, il Vulture in Basilicata e il Taburno nel Sannio. Ma la sua presenza è ben radicata in tutte e cinque le province campane, nella zona di Castel del Monte in Puglia e persino nel Molise. In una battuta: dove finisce il regno del del montepulciano inizia quello dell’aglianico, un vitigno molto antico di cui si hanno notizie precise sin dai tempi di Ottaviano che trascorse gran parte del parte finale della sua vita in Campania, ben acclimatato lungo la dorsale merdionale dell’Appennino, poco amante delle pianure come i briganti che combattevano i piemontesi. Nel corso dei decenni ha resistito alla moda degli anni ’60 di piantare uve nazionali più prolifiche, poi a quella degli anni ’80 e parte degli anni ’90 di usare cabernet sauvignon e merlot per nobilitare alcune aree vitivinicole con scarsa tradizione alle spalle.
I motivi del suo successo sono gli stessi delle sue precedenti difficoltà ad affermarsi: la vendemmia tardiva che accresce per i contadini i rischi dell’uva sui campi di almeno due mesi, i tannini difficili da domare e bisognosi di tempo e di altre uve più facili come il piedirosso per riequilibrarsi, l’eccessiva freschezza altrimenti impossibile da valorizzare senza l’esperienza e la conoscenza di un enologo, l’essere poco vigoroso, non eccessivamente fertile, la maturazione su pianta poco omogenea. Insomma, in una parola, un’uva difficile, poco adatta ai tempi in cui si ama la semplificazione e la banalizzazione papillosa. Per questo motivo l’Aglianico non conosce vie di mezzo, o è un grande vino oppure non piace.
Bene, torniamo all’inizio degli anni ’90, alle origini del successo attuale. Anzitutto cambia sostanzialmente il quadro produttivo del territorio: molti conferitori iniziano ad etichettare in proprio e arricchiscono lo scarno panorama delle etichette. Ma soprattutto nascono le cantine di Caggiano a Taurasi e dei Feudi di San Gregorio a Sorbo Serpico, due fenomeni apparentemente opposti ma complementari perché risultato della stessa voglia di investire. Antonio Caggiano è un geometra con il pallino dei viaggi e della fotografia, avrebbe potuto godersi il frutto del suo lavoro invece di ricominciare costruendo una cantina con il tufo e le pietre che altri avevano buttato nelle discariche per sostituirlo con il cemento. Durante un viaggio a Bordeaux incontra il giovane Luigi Moio, figlio d’arte perché il papà Michele è il primo produttore di Falerno, con D’Ambra, Ocone e Mastroberardino uno dei nomi storici della viticoltura campana. Luigi è da quattro anni a Bordeaux dove lavora come ricercatore, Antonio ha un tono di voce basso ma sa essere convincente: Luigi torna e inizia a lavorare sull’aglianico, il 1994 è la prima vendemmia commercializzata. Contemporaneamente alla sua carriera universitaria è impegnato anche nelle prime cinque vendemmie dei Feudi. <Il ragionamento che ho fatto è stato molto semplice – spiega il professore Moio – ogni anno da decenni in tutto il mondo escono ricerche su cabernet sauvignon, chardonnay e merlot ma dell’aglianico, del fiano, della falanghina, del greco e di tutti i vitigni campani si sapeva poco o nulla>. Questo specchio di Alice apre al giovane ricercatore, oggi ordinario di Enologia all’Università di Portici, una prateria dove scorazzare a piacimento seguendo l’inclinazione del suo carattere, cioé dandosi da se stesso i tempi e gli obiettivi del lavoro da fare. La presenza di Caggiano pone termine ad un non senso: in effetti sinora il Taurasi era il vino di un paese che non c’era, come dire il Montalcino senza produttori a Montalcino, il Barolo senza Barolo, il Sagrantino senza Montefalco. Seguendo il suo esempio, alcuni prendono coraggio e iniziano ad etichettare in proprio prodotto chiamando enologi professionisti mentre il testimone è raccolto da un altro personaggio chiave della storia del Taurasi, Antonio Buono, sindaco dal 2005, da anni presidente di Antica Hirpinia, la più grande cooperativa vitivinicola della provincia di Avellino. Ormai la vecchia struttura in cemento all’ingresso di Taurasi ha rifatto il make up: all’esterno la facciata è in pietra e mattoni, dentro i tre corpi di fabbrica occupano ormai grandi spazi con una bottaia di enormi dimensioni dove sono custodite centinaia di barrique e le botti grandi che assediano la sala-convegni. Restano le antiche vasche di cemento tornate in auge, affiancate da quelle in acciaio dotate di tutta la tecnologia moderna. Nell’altro corpo di fabbrica c’è lo stoccaggio mentre nel terzo agli uffici è stata affiancata una sala ristorante coperta da una terrazza dove si gode il panorama al riparo di un pergolato. Punto vendita e sala degustazione sono sistemate nella cantina, fuori un giardino mediterraneo accoglie il visitatore. In tal modo la cooperativa ribadisce il suo ruolo leader sul territorio, del resto proprio la sua attività ha consentito di salvaguardare la tipicità della produzione sul territorio in anni difficili contribuendo prima a sostenere i prezzi delle uve, poi a calmierarli. I terreni dei 170 soci sono in collina, tra i 300 e i 600 metri. La presenza di questa grande struttura ha di fatto evitato al Taurasi la crisi conosciuta dagli altri grandi rossi italiani perchè ha evitato ingiustificate impennate dei costi proprio nel momento la bolla speculativa italiana ha iniziato a sgonfiarsi: per questo tra il 2001 e il 2004, cioé durante il periodo più acuto della crisi del mercato nazionale e internazionale, la docg conosce un incremento produttivo del 32% superando i due milioni di ettolitri. Un boom inarrestabile anche se non sono mancati momenti difficili, e comunque non paragonabile a quello del Fiano di Avellino e del Greco di Tufo che hanno sbancato con incrementi produttivi del 50%.
Gli anni ’90 segnano dunque il moltipicarsi di aziende al lavoro sull’aglianico: Walter Mastroberardino esce dall’azienda e fonda Terredora con i figli Daniela, Lucio e Paolo (entrambi enologi), giovani winemaker come Roberto Di Meo, Angelo Valentino, Michele De Simone, Carmine Valentino, Raffaele Troisi, Antonio Di Gruttola, Massimo Di Renzo, Antonio Pesce, iniziano a produrre grandi rossi, ad Atripalda Piero subentra al padre Antonio nella gestione dell’azienda e chiama Vincenzo Mercurio. In Irpinia si affaccia il sannita Angelo Pizzi, il papà dell’Aglianico del Taburno, Sabino Spina e Raffaele Inglese proseguono rinfrancati il loro lavoro. Infine, last but not least, alla Feudi arriva Riccardo Cotarella, primo amore nel 1992 in Campania con il Montevetrano da uve internazionali, poi l’incontro con i vitigni autoctoni di Villa Matilde a Cellole e a Sorbo Serpico. <L’esperienza con Feudi è esaltante – dice Riccardo – perché c’è  la possibilità di lavorare a 360 gradi in piena traìnquillità, sperimentando in continuazione nuove strade>. Ed è appunto in Campania che Cotarella approfondisce vendemmia dopo vendemmia il suo rapporto con i vitigni autoctoni: non potrebbe essere diversamente perchè la regione è l’unica in Italia a non prevedere uve internazionali nella sua igt. Naturalmente sono autorizzate ovunque, ma non può esistere, giusto per fare un esempio, un Cabernet Sauvignon Campania igt. Una scelta estrema, che però si è incrociata alla perfezione con le ultime tendenze del mercato, sofferte in realtà da produttori ed enologi, ma che vede i consumatori sempre più indirizzati verso questo target di vini: tipici e in buon rapporto tra qualità e prezzo.
Il contraltare alle grandi aziende è Salvatore Molettieri, i cui primi rossi apparvero improvvisamente all’enoteca di Santa Lucia a Napoli a cinquemila lire la bottiglia nel 1994. Una scoperta capace di camminare sul passaparola sino al successo odierno in cui la continuità è rappresentata dai figli, soprattutto da Giovanni che ha studiato enologia: dal latte al vino è la storia di questa laboriosa famiglia di Montemarano, forse la collina maggiormente vocata di tutto l’areale docg, che vede Salvatore prima riconvertire l’attività di famiglia passando dall’allevamento alla valorizzazione della viticoltura e poi, lavorando nei campi e viaggiando per fiere con la bottiglia sotto il braccio, raggiungere il successo. Forse l’unico esempio taurasino classico di vigneron così come lo si intende in Francia.
Insomma, quando l’effetto della crisi ha regalato agli italiani la voglia di qualcosa di autentico, il Taurasi era ormai pronto sugli scaffali. Certo, la diversità di interpretazioni è marcata, non solo tra i due classici partiti in cui si divide il mondo enologico italiano, ossia legno grande e legno piccolo. Ma su un punto sono tutti d’accordo: l’aglianico è un’uva che ha bisogno di legno. Gli esempi di vinificazione ed elevamento in acciaio, che pure non mancano, sono molto categorici sui risultati, chi sceglie questa strada, comunque non prevista dal disciplinare, deve aspettare almeno quattro o cinque anni prima di avere un prodotto in grado di colpire.
Il Taurasi è vino da lungo, lunghissimo invecchiamento. Lo testimonia la tradizione Mastroberardino che porta con assoluta tranquillità in degustazione il 1968, ma anche i risultati delle verticali nelle quali dieci vendemmie mostrano ancora un vino dal colore rubino carico, tanta freschezza, buona frutta. Ed è su questa possibilità che uno dei rossi più importanti d’Italia gioca le sue carte, cioé sul buon rapporto tra qualità e prezzo e sulla possibilità di conservarlo senza eccessivi problemi per molti anni. Quelli necessari per risollevare le sorti del paese colpito come gli altri dal terremoto del 1980.
Quando iniziò l’avventura taurasina, questo centro di tremila anime era ancora quasi tutti incatenato dai tubi per sostenere le abitazioni pericolanti, la gente non vedeva prospettive per il futuro. Quest’anno, in occasione della quarta edizione dell’Anteprima, è stata inaugurata l’Enoteca Regionale nel Castello che domina la piazza mentre nel centro storico si lavora, si ristruttura, si investe. Ed è forse questo il dono più bello del vino all’uomo: l’orgoglio di poter vivere nella propria terra senza essere costretto ad emigrare.
 

da Cucina e vini, marzo 2007 
La storia del Comune
Taurasi è costruita su una collina alta 400 metri da cui si domina tutta la media valle del Calore. Le sue origini si perdono nella notte dei tempi: i numerosi ritrovamenti archeologici attestano che questo territorio era abitato già nell’Eneolitico, come testimoniano i recenti rinvenimenti a contrada San Martino. Il nome, di chiara origine osco-sabellica, fa riferimento al toro, il mitico animale condottiero della tribù sannita dei Taurasini, che giunti dal Nord andarono ad occupare una vasta zona tra le attuali province di Avellino e Benevento. Da loro prese il nome l’Ager Taurasinus (Campi Taurasini) o forse Cisauna, al di qua dei monti della Daunia. Furono loro i fondatori della città-Stato di Taurasia.
Lucio Cornelio Scipione Barbato la conquistò nel 298 a. C. nel corso della III guerra sannitica ed il suo territorio divenne “agro pubblico del popolo romano”. Qui vicino il console Manlio C. Dentato nel 273 a.C. sconfisse le armate di Pirro. Durante le guerre puniche, i Taurasini si schierarono con Annibale e si difesero tanto strenuamente da subire, da parte dei Romani, il quasi totale annientamento. La città, al termine delle ostilità, divenne “foederata”, ossia alleata di Roma. Nei territori ormai spopolati, nel 181 a.C. furono deportati i Liguri-Apuani. Durante la guerra sociale del 90-89 a C., la città si ribellò a Roma e fu saccheggiata; successivamente ebbe lo statuto di municipia e vide latinizzare il nome in Taurasium e iscrivere alla tribù elettorale Cornelia. Dopo la battaglia di Filippi, nel 42 a.C., durante il triumvirato augusteo, il territorio fu dato ai soldati romani veterani, diventando colonia militare ed i nuovi padroni iniziarono a costruire delle ville, mentre un’altra parte di esso passò nelle mani della seconda moglie di Augusto, Livia Drusilla. In questo periodo storico si diffonde la coltivazione della vite Ellenica. Tito Livio scrisse di una Taurasia dalle “vigne opime”.
Con l’arrivo dei Longobardi, si ha una rinascita e sorge l’odierna Taurasi con il castello, quasi sul medesimo sito. Nell’883 e tra il 900-910 subisce una serie di distruzioni da parte dei Saraceni. Con l’arrivo dei Normanni, il Castello viene ricostruito ed assegnato, nel 1101, a Trogisio di Taurasi della stirpe dei Sanseverino; con costui la baronia di Taurasi raggiunge il suo massimo prestigio ed importanza, infatti, essa andava dalle porte di Benevento e Avellino fin sotto il territorio di Sant’Angelo dei Lombardi. In seguito la storia registri continui passaggi di mano del feudo. Nel 1779, con la nascita della Repubblica Napoletana, anche a Taurasi fu piantato l’albero della libertà. Con il ritorno della monarchia, i Latilla, marchesi di Taurasi, rimasero fino all’abolizione della feudalità.
Nel 1809 nasce ufficialmente il Comune di Taurasi, nel 1860 Taurasi è annesso al Regno d’Italia e nel 1893 è dotata della stazione ferroviaria che darà il nome al vino della zona. .
 

La Denominazione di origine controllata e garantita
11 marzo 1993
I comuni interessati
Taurasi, Bonito, Castelfranci, Castelvetere sul Calore, Fontanarosa, Lapio, Luogosano, Mirabella Eclano, Montefalcione, Montemarano, Montemileto, Paternopoli, Pietrafedusi, Sant’Angelo all’Esca, San Mango sul Calore, Torre Le Nocelle, Venticano.
Caratteristiche generali
Vitigni: aglianico (è consentito l’uso di altri vitigni a bacca rossa non aromatici, purché autorizzati per la provincia di Avellino, fino ad un massimo del 15%)
Resa max per ettaro: 100 quintali
Titolo alcolometrico minimo: per il Taurasi 11,5%, per la tipologia riserva 12%. Quando viene messo in vendita deve arrivare al 12,5%
Invecchiamento: almeno tre anni, di cui uno in legno; se riserva quattro, di cui diciotto mesi in legno. Tale periodo decorre dal primo dicembre dell’annata di produzione delle uve. È possibile, inoltre, aggiungere vino giovane Taurasi fino al max del 15%. La resa max delle uve in vino, comunque, non deve superare il 70% al primo travaso e il 65% dopo l’invecchiamento.
Caratteristiche del vino
Colore: rubino intenso tendente al granato (con l’invecchiamento acquista anche riflessi arancioni)
Odore: caratteristico, etereo, gradevole più o meno intenso
Sapore: asciutto, pieno, armonico, equilibrato, con retrogusto persistente
Titolo alcolometrico minimo: 12%
Acidità totale minima: 5 per mille
Estratto secco netto minimo: 22 per mille