Il dolce Falerno di Papa


Ma quanto ci piace questa aziendina monovitigna, la versione in rosso di Villa Diamante o Montevergine dedite al Fiano. Antonio segue le orme del padre Gennaro e ha un paio di idee molto chiare e precise. La prima, sui quattro ettari ci si mette solo e soltanto primitivo confermando la tradizione arrivata intorno al Massico nella seconda metà dell’Ottocento. La seconda, invece di fare il classico vino di ricaduta per sostenere il top wine, parliamo del Falerno Campantuono, offrire l’altro volto possibile del vitigno, quello dolce. Così Papa interpreta al meglio l’unico mestiere possibile alle realtà sotto le diecimila bottiglie, presentarsi al mercato con una forte caratterizzazione senza cercare di inseguire le mode del momento zompellando dal bianco al rosso e viceversa. In provincia di Caserta ci sono un paio di rossi dolci davvero molto buoni, il Cinque Pietre di Telaro e quello di Antico Borgo a Galluccio, entrambi da Aleatico. Una tradizione in forte declino in tutto il Mezzogiorno che viene difesa senza molta convinzione in Puglia e nel Vulture con la versione spumantizzata dell’Aglianico. Ecco perché la decisione di usare le uve per affrontare questo segmento di mercato presuppone una considerevole base culturale alle spalle, quella passione di un viticoltore che evita di farsi condizionare dal mercato cercando invece di affermarsi con le proprie idee. In origine il Primitivo dolce di Papa si chiamava Faustino, così come i romani chiamavano un famoso cru della Campania Felix, poi la scoperta del nome registrato in Spagna e la possibilità di avviare una battaglia legale dagli esiti incerti. Per questo, dopo altre ricerche, Antonio ha deciso di utilizzare il termine dialettale modificato nel corso dei secoli, da Faustino a Fastignano, appunto. Questa versione, prodotta da uve maturate tardive, esprime frutta matura, ben evoluta, ma non cotta dal sole, la mineralità e la freschezza, oltre alla escursione termica, riescono a tonificare la vigna anche in annate siccitose per un risultato nel bicchiere finale mai stucchevole, ben equilibrato: forse il segreto è nell’aver usato barrique di secondo passaggio per l’elevamento. Un vino dolce da bere in meditazione, di corpo, ben strutturato, potente, oppure da sorseggiare alla fine del pasto con la pasticceria secca. Da non dimenticare il fratello maggiore, il Campantuono, nel quale il Falerno si esprime con maggiore morbidezza rispetto alla consuetudine, frutto della mano dell’enologo umbro Maurilio Chioccia. Forza, allora, con i vini dolci. Ne vogliamo tanti, li vogliamo buoni.