Il mio incontro con Luigi Tecce, viticoltore in Paternopoli


di Vincenzo Mercurio *

Luigi Tecce e Vincenzo Mercurio

Nasce un insolito progetto di vino tra l’enologo campano e l’anarchico dell’Aglianico
La torrida estate sembrava non terminare mai, camminare in vigna, dopo le 10 del mattino era diventata un’impresa ardua. In una sera, calda, quasi per spirito di contraddizione, decisi di non bere il solito bianco o la solita birra ma di aprire una bottiglia che avevo gelosamente custodito, Polifemo 2005 Taurasi Docg di Luigi Tecce viticoltore in Paternopoli e Castelfranci.
Ne avevo sentito parlare benissimo, e quindi stappai con molta curiosità e con molte aspettative. Fui sorpreso, estremamente sorpreso da quella bottiglia, perché non era un buon vino, ma era qualche cosa di più.
Ero di fronte alla capacità di un viticoltore di intrappolare l’energia, la luce, il calore, le vibrazioni delle vigne di Paternopoli in una bottiglia, si un vino materico, capace, in un sorso, di farti rivivere una passeggiata tra i filari, quando si sente il fiore dell’aglianico prepotentemente invadente, la gioia della vendemmia con la festa di profumi, luci e suoni, una “Piedigrotta” Irpina che si passa tutta in vigna-cantina per poi esplodere con il gran finale in bottiglia. Ero di fronte ad un artista che nella sua semplicità era capace di farti provare emozioni attraverso le sue creazioni.
Quando lo incontrai in Paternopoli vidi un uomo dall’aria mingherlina, con scarpe grosse per camminare la vigna, ed una linea esile quasi a memoria degli sforzi fatti per intrappolare le energie cosmiche racchiuse nelle sue botti prima e nelle sue bottiglie poi. La visita in cantina, quella dei nonni, le sue tecnologie (nessuna) i suoi prodotti enologici (nessuno) lo rendevano davvero unico. Dopo un assaggio orizzontale tra le sue sperimentazioni gialle, dorate, nere e violacee, ecco che arriva la verticale di Poliphemo dal 2001 (pochissime bottiglie) al 2008 il debutti dell’affinamento.
Una verticale che ancor di più mostrava la propensione del suo vino ad essere materico ma con eleganza. Fui raggiunto da una energia positiva, quella che lui sapientemente aveva intrappolato in vigna orientando i suoi filari prima ed i grappoli poi, come fossero pannelli solari. In questi appennini ogni goccia di calore è preziosa e chi sa raccoglierla la ritrova nella qualità del suo vino. Fu immediato il pensiero agli impressionisti che attraverso i tratti trasferivano l’energia di un luogo, di un personaggio, di un’ emozione. Dalle citazioni da letterato maccheronico come ama definirsi Luigi ai mie racconti delle 10 visite al museo di Orsay, Parigi, per me un tempio pagano, dove rifugiarsi per raccogliere attraverso la tela le energie cosmiche vitali.
Complice il vino ma le nostre parole nascevano spontanee come se parlassimo di nostri cari amici ….da Vinicio Capossela (amico di Luigi e di Poliphemo) a Paolo Conte, De Andrè, Gino Paoli, tutti poeti che saprebbero apprezzare i vini di Luigi e li saprebbero raccontare. Cosa ne avrebbe pensato Monet e Van Gogh ? Sicuro non era un vino da Degas ma più vicino a Toulouse Lautrec. Era la fine di agosto ma non sarebbe stata la fine del caldo che continuò, imperterrito, fino agli inizi di settembre, il nostro incontro terminò con un desiderio comune quello di fare un vino, insieme materico ed elegante, moderno e antico, che sarebbe partito dalla terra e sarebbe ritornato per un periodo indefinito ad affinarsi nella terra, e che attraverso una metamorfosi lentissima sarebbe tornato a vivere a contatto con le vibrazioni del mondo esterno.
Un vino che avrebbe amato le bucce attraverso una macerazione indefinita di alcune lune. Pensammo che per mantenere il contatto con la terra, per il vino non c’era niente di meglio dei dolia di terracotta. Ma non un dolium qualsiasi, doveva essere fatto da argilla Campana e sapientemente plasmato dalle mani di un artista eclettico in grado di lavorare con le mani come lavora un pranoteraupeta. Trovammo il pranoteraupeta, Gaetano Branca da Carife, ed iniziò una nuova avventura…

*Enologo