Il provolone del monaco della Penisola Sorrentina


Il provolone del monaco

Il pascolo più bello del mondo? Non è tra le angoscianti e piovose valli alpine di Heidi ma sotto il sole a Punta Campanella, come ben sanno quelle mucche fortunate che tra una sbruchettata e l’altra di macchia mediterranea si godono Capri, Positano e il golfo di Napoli. Sono poco meno di tremila capi che se la spassano ciondolando indisturbati tra i sentieri più nascosti ai turisti della Penisola Sorrentina e tra i pascoli delle Sirene.

Qui, tra Agerola e le frazioni di Vico Equense, nasce il Provolone del Monaco, uno dei formaggi-evento degli ultimi anni, molto ricercato dai gourmet e dal sapore inconfondibile.
Come succede a tutti i prodotti autentici e artigianali tramandati di padre in figlio, i suoi nemici più implacabili sono le grandi industrie dell’agro-alimentare e le normative europee, pensate e ideate da chi entrerebbe solo con una tuta da astronauta in una pizzeria napoletana o in una trattoria dei colli romani per evitare contaminazioni batteriche. Ma che hanno fatto di male questi batteri? Chissà. Tanto per fare un esempio, questo formaggio, molto caro alla nobiltà borbonica, si può chiamare ufficialmente solo caciocavallo del monaco perché si sa, il provolone è solo…padano. Qui, però, è da sempre «Provolone del Monaco». Perché? «Ci sono molte versioni – spiega Salvatore Di Gennaro, affinatore e titolare di un punto di gastronomia di qualità a Vico – come accade per tutti i prodotti che raggiungono il successo. Quella più diffusa, e forse banale, attribuisce la produzione di questo formaggio ai monaci dei numerosi conventi della Penisola Sorrentina. Ma io ne accredito un’altra. Quando questi formaggi avevano mercato solo a Napoli perché troppo costosi erano trasportati via mare con le cianciole a remi. I produttori arrivavano in porto completamente anneriti dalla tipica muffa scura che avvolge il provolone e per questo erano sfottuti dai marinai: guarda sto’ monaco, pare proprio nu provolone». C’è anche chi sostiene che questa lavorazione sia iniziata sulle colline del Vomero e poi portata tra Vico e Agerola.

Provolone del monaco, caseificio Belfaito


In ogni caso il consumo del Provolone del Monaco è sempre stato destinato alle tavole nobili dove veniva apprezzato, proprio come oggi, per il suo sapore rotondo e morbido e, al tempo stesso, inconfondibile e ben caratterizzato. Aneddoti, storie, indispensabili per affermare qualsiasi prodotto nella nicchia di qualità. Ma la svolta arriva con le decisione del presidente dell’Arcigola Slow Food Carlo Petrini di creare un presidio sul «Provolone del Monaco» nell’ambito del progetto dell’Arca. Di fronte all’avanzata di hamburger, patatine congelate, fish and chips e bibite gassate agli ultimi gastronauti non resta altro da fare che salvare il salvabile delle tradizioni e della cultura in questa ideale arca e godersela alla grande mentre il resto del Mondo finisce tritato in contenitori di plastica molto pulitini, sicuri e tutti uguali da Hong Kong a Lisbona. Un progetto che richiede investimenti e, soprattutto, selezioni di qualità e che in Campania coinvolge, ne parleremo, anche il pomodoro San Marzano. «Il nostro intento – spiega Vito Puglia, vicepresidente nazionale Slow Food e scout della qualità sul territorio – è creare una vera filiera, a cominciare dalla razza delle vacche, l’Agerolina, oggi in via di estinzione». Insomma, ricacciamo le Frisone in Svizzera! C’è poca ideologia e molto mercato in queste scelte: il prodotto di qualità, vedi la vicenda del lardo di Colonnata o del pecorino di fossa, non ha prezzo nei circuiti degli intenditori.


Ma chi produce il Provolone del Monaco? Tra Agerola e Vico ci sono appena una decina di mastri casari specializzati, ma il livello è sempre assolutamente artigianale, quindi di qualità. Giuseppe Albano, proseguendo una tradizione familiare secolare la cui continuità è oggi garantita dalla figlia Barbara ha creato la filiera, dall’allevamento delle vacche alla lavorazione nel caseificio sino alla stagionatura. Una realtà, tra Moiano e Ticciano, d’avanguardia. All’estremo opposto Luigi Parlato, mastro casaro d’altri tempi, attento alla direzione del vento per garantire la perfetta stagionatura, il segreto di ogni formaggio. Sempre nella zona di Vico, lavorano Giancarlo Russo e Antonio Staiano. Improvvisamente l’offerta è diventata decisamente inferiore alla domanda ed è difficile resistere alla tentazione di vendere il provolone appena pronto senza aspettare il tempo di maturazione necessario. «Ma è importante farlo – sostiene Di Gennaro – perché solo così si potrà affermare un target di qualità da sostenere anche a livello legislativo, primo passaggio indispensabile alla tutela del prodotto». Ma c’è ancora un altro ostacolo da considerare: in Italia, e soprattutto in Campania, nei ristoranti non esiste, se non sporadicamente, il carrello dei formaggi alla francese. Un limite molto grave (siamo fermi al «gradisce scaglie di parmigiano?») perché, finita la pacchia sulle tavole aristocratiche, il futuro dei prodotti di nicchia è affidato all’intelligenza e alla capacità di investimento di chi gestisce l’alta ristorazione perché la filiera inizia sul pascolo più bello mondo e termina nel piatto.