Il Sylvaner incontra la cucina romana: una degustazione insolita con Abbazia di Novacella


Abbazia di Novacella

Abbazia di Novacella

di Raffaele Mosca

Un rendez-vous con l’azienda più antica di tutto il territorio bolzanino: una tenuta abbaziale attiva dal 1143 nel cuore della Valle Isarco, la zona più alta e fredda delle valli altoatesine. Celeberrima per i suoi vini di montagna, da vitigni “germanici” come Riesling, Veltliner, Kerner. In questo caso è stato il Sylvaner, forse un po’ meno conosciuto dei precedenti tre, ad essere presentato in quattro millesimi diversi.

Tutto questo non nelle valli montane dove cresce l’uva, ma da Checchino al Monte dei Cocci, istituzione di una città, Roma, che da sempre consuma non meno del 50% della produzione delle più grandi cantine altoatesine, seconda per peso nel fatturato complessivo delle cantine dopo la provincia di Bolzano. Il perché non è difficile da comprendere: negli anni in cui i bianchi laziali zoppicavano, con bottiglie tendenti all’ossidazione in giovane età, gli altoatesini hanno fatto leva su precisione e pulizia per conquistare una piazza che, nonostante tutte le evoluzioni – e distorsioni – del gusto, continua ancora a premiarli.

La stra-grande maggioranza di questa grande fetta di produzione sudtirolese che inonda la capitale finisce nei ristoranti di pesce. Con il Sylvaner, però, l’abbinamento terragno – e in particolare quello con la cucina romana tradizionale – è assai più consigliabile, perché le migliori espressioni di questo vitigno abbastanza raro, di origine germanica ma oramai radicato nelle zone più a nord dell’Alto Adige, hanno struttura da piccoli rossi, saldamente supportata dalle acidità affilate che le altitudini importanti della Valle Isarco – 650-750 – lasciano come timbro di fabbrica.

Non è un caso che il Sylvaner Stiftsgsrten, “giardino delle spezie”, faccia un bel periodo di affinamento in legno: più o meno 18 mesi tra botte grande e barrique. In assaggio due annate diverse: la 2019, che è già in commercio da un po’, e la 2018, uscita tardivamente perché una parte della massa aveva fatto un passaggio sperimentale in anfora che, a detta del team enologico, lo ha reso meno pronto per il consumo . La differenza, in effetti, è abbastanza marcata: la 2019 mantiene integri i connotati varietali, con profumi proprio “silvani”: erbe spontanee ed eucalipto su fiori di campo, pesca noce e bergamotto. Largo ma tutto meno che grasso, anzi molto sapido e trainato da guizzi agrumati : un proverbiale pugno di ferro in guanto di velluto. Tiene testa a un crostino con guanciale di Monte San Biagio, ingentilendone i sapori con il suo retro-olfatto di stampo balsamico e floreale.

Lo Stiftsgarten 2018 è un pelino diverso: ha un profumo meno gentile, più scuro, con accenni ossidativi garbati che sfumano su nocciola e pietra focaia. Sempre puntuale nell’accoppiata di massa glicerica e tensione, ma con chiusura ricca di spezie dolci e miele, fa da ponte tra il vino giovanile servito subito prima e due vecchie annate dì Praepositus, l’etichetta classica dell’azienda.

La differenza sostanziale tra Stiftsgarten e Praepositus sta nel passaggio in legno più breve del secondo, ma é l’evoluzione in bottiglia a scombinare le carte completamente: il Praepositus 2015 si presenta in forma smagliante, paradossalmente meno evoluto e con un frutto più esuberante rispetto al 2018. Accenti minerali e pepati stagliano su di una ricca polpa di frutta a guscio mediamente matura. Si “mangia” la pasta e ceci… e non avrebbe fatto brutta figura su di una canonica carbonara!

La 2011 mostra i segni del tempo, con un’evoluzione da grande Riesling, tra idrocarburi, miele d’acacia, curry e senape, nocciola e il solito tocco mentolato sul fondo. Più disteso, ma tutto meno che stanco: abbina estro e ricchezza aromatica da grande bianco invecchiato alla freschezza citrina e alla precisione tipica dei vini sudtirolesi. L’abbiamo lasciato da parte, per poi testarlo con un petto di vitello alla fornara. Il risultato? Be’ innanzitutto la temperatura più alta non l’ha minimamente sciupato, anzi ha lasciato emergere il frutto, che sulle prime pareva surclassato dalla parte evolutiva. E sulla carne ha fatto il suo dovere: sgrassante e accomodante alla pari – se non più – di un rosso leggero!