Le famiglie del vino: Ocone


Come reagire alla crisi degli anni Ottanta? I produttori di vino del Sannio se lo domandavano con angoscia, vendemmia dopo vendemmia. Di fronte al continuo e costante calo del consumo, e quindi della domanda, c’era chi pensava che l’unica soluzione fosse l’abbassamento dei prezzi. Una pattuglia di pionieri sanniti, Ocone, Mustilli, Venditti e Ciabrelli, si orientò con decisione sulla riscoperta dei vitigni autoctoni investendo in cantina per migliorare le attrezzature e mettersi alla pari con i colleghi del Centro-Nord. «Sono stati anni molto duri – ricorda Domenico Ocone – perché facevamo una scommessa al buio. Eravamo sorretti dalla passione e dalla consapevolezza che sui grandi numeri non avevamo alcuna possibilità di competere». Poi, negli anni ’90, si presentò bruscamente il secondo bivio: bianco o rosso? Il consumo campano, sia per la tradizione che per le caratteristiche della cucina di costa che assorbe gran parte della produzione, era decisamente orientato sul bianco. «Capii che qualcosa stava cambiando – dice Mimmo – quando mi presentai per la prima volta con il mio campionario all’Hotel San Pietro di Positano. Ero convinto di vendere Greco e Falanghina in quantità, invece mi chiesero il rosso. La clientela anglossassone, quella che poi ha determinato la svolta sul mercato globale soprattutto dopo le ricerche scientifiche, usava solo bere vino rosso. E fu la svolta: avevo il cru Vigna Pezza la Corte, un antico vigneto di Aglianico piantato trent’anni fa da mio padre Luigi. Decisi si creare un altro prodotto di qualità ed è nato il Diomede». Ancora oggi basta una breve traversata alle falde del Taburno, nella valle tappezzata di vigneti, per rendersi conto della difficoltà di certe scelte. Siamo nella «barriera corallina» della enologia campana, quella che ha impedito l’alluvione del vino pugliese a basso costo sul versante tirrenico. Da sempre la produzione di uva rappresenta una delle prime risorse della zona: chilometri e chilometri dove si può trovare di tutto, dal Trebbiano al Montepulciano, persino filari di Chardonnay. I disciplinari di alcune doc, diciamola tutta, sono di manica larga. In questo contesto, puntare sui vitigni autoctoni campani, presentarsi sul mercato con bottiglie appena un po’ più care richiedeva, e richiede, molto coraggio. Probabilmente ad indirizzare sulla strada giusta Mimmo Ocone sono state le sue radici. L’azienda viene da lontano: fu il nonno Giuseppe a fondarla mentre il padre Luigi, scomparso appena tre anni fa, ci ha lavorato con passione sino alla fine. Oggi parliamo di 35 ettari, di un bel cru di Falanghina, la Vigna del Monaco, di spumante, di una conversione biologica in atto e di 240.000 bottiglie battezzate e cresimate, gran parte delle quali già vendute prima di uscire dalla cantina sui mercati europei. E poi ancora studi, ricerche sui vitigni, stage con giovani enologici francesi e australiani, una accogliente sala degustazione. Insomma, una realtà in decisa evoluzione. «Gli sforzi – conclude Ocone – sono stati ripagati, anche se c’è ancora molto da lavorare».