L’Ispettore Michelin e i viali di Provenza


Abbazia di Senanque

di Fabrizio Scarpato

La Provenza è un viale verde di platani.

Frega un tubo della lavanda, anzi mi scassa a priori i cosiddetti, ma infilarmi in quelle gallerie di foglie è come entrare in una chiesa: una testimonianza insomma. Ci sono platani lungo le strade, tutti in fila a separare il ciglio erboso dai ciottoli bianchi lasciati lì a svezzare le vigne basse, al riparo dal Mistral; ci sono platani che fanno da quinta allo spettacolo dei campi di girasoli; ci sono i platani dei viali di paese che danno ombra ai giocatori di pétanque. Il platano è un grande albero in fondo timido e leggero, dal fogliame sospeso, come il frinire delle cicale in un pomeriggio d’estate.

Sono belli i viali di Orange, gli alberi frammentano la luce del sole sul cruscotto della cabrio a noleggio, per poi diradarsi, lungo la strada per Carpentras: resiste qualche platano solingo qua e là, una rinfrancante, fuggevole zona d’ombra, ché solo la vista del Mont Ventoux ti fa sudare. Sempre che il platano non sia in prossimità di una passaggio a livello, che la sbarra non si abbassi e che tu non abbia davanti un tipo che si ferma tranquillamente all’ombra, proprio di quell’unico platano: col passaggio a livello distante cento metri. Io la sbarra andrei a guardarla negli occhi, avvicinandomi lentamente, nella snervante attesa che la stronzetta mi lasci passare, se possibile prima dell’assolo di “Big Man” Clemons in Born to Run, ché anche a noi piace l’aria in faccia come al Boss, che una highway tra i girasoli, detto tra noi, manco se la sognava.

Born to Run

Ma c’è sempre l’omino meticoloso col cappellino, l’omino centrino-di-pizzo-senza-età che, per timore di finire arrostito nel suo angusto abitacolo, s’arresta previdente all’ombra purchessia, incurante del sacrosanto scassamento di camemberts con cui ogni persona civile, più o meno suo malgrado, convive. Lui no, lui si ferma sotto il platano, per motivi imperscrutabili, forse retaggio di un’infanzia spalmata di Piz Buin. Ma io sono sceso, e non gliel’ho chiesto. Ho fatto solo cenno col dito, lui ha abbassato il finestrino e io gli ho preso il cappellino di paglia e ne ho fatto poltiglia, sbranandolo, pestandolo a terra col solo piede che me lo consentiva, con un rigurgito di violenza che non mi appartiene, che non mi apparteneva, prima di attraversare uno dei tanti viali di platani della Provenza.

Viale alberato in Provenza (foto by Charles)

Sto male, e si vede. Mi gira per la testa la storia di quell’uomo appassionato di musica che spesso, la sera, registrava i concerti alla radio. E’ una storia d’altri tempi, di quando si registrava con un magnetofono piazzando un microfono a debita distanza dalla sorgente del suono. Poi un angoscioso e immobile silenzio. L’uomo aveva una moglie, forse poco interessata alla musica, sicuramente non più innamorata di lui, ai suoi occhi terribilmente noioso. Così al momento della registrazione con perfida casualità lei lasciava cadere un bicchiere, camminava coi tacchi nel corridoio, tossiva, sbatteva una porta per di più rammaricandosi ad alta voce per il vento fastidioso. Tutto finiva registrato, insopportabile rumore di fondo sovrapposto a un assolo, a una mirabile melodia. Un giorno la donna se ne andò, ma l’uomo, finalmente solo, non avrebbe più avuto animo di registrare ancora, anzi finì col ritrovarsi ad ascoltare, muto, quelle registrazioni farlocche e inquinate, ma vive dei rumori di lei: tacchi, voci, colpi di tosse e porte sbattute erano l’unica ragione di quei nastri, l’unica cosa che aveva veramente contato nella sua apparentemente perfetta esistenza.

I platani mi ricordano Mariana, l’ombra la freschezza della sua pelle ambrata, il sole le sue risate, la sua vitalità spesso prevaricante. Ho fatto di tutto per allontanarla, sto facendo di tutto per ritrovarla.

Mi fermo per bere qualcosa in una piazza pietrosa circondata dagli alberi: il bar ha grandi tavoli tondi di pietra, intarsiati e inamovibili. Il primo pensiero è evitare che qualcuno, approfittando dello spazio, si sieda accanto a me, magari con l’intenzione di fare due chiacchiere: non sarebbe gradito. Mi accomodo in un tavolo accostato al muro, cercando di limitare gli spazi disponibili per eventuali scassapalle. Aleggia nel pomeriggio inoltrato un insistente profumo di anice: il Pastis non mi piace, ma ho sete. Fanno piacere, ma non mi aiutano, delle bruschette di pane alle erbe, tiepide e appena toccate da un velo d’aglio, unte leggermente di un olio che mi pare buono, almeno per quanto ne possa capire un poliziotto normanno. Poi un paio di strisce di focaccia alle olive, una piccola concassé di pomodori e melanzane e una salsa tapenade da spalmare a piacere su qualche crostino di baguette, giustamente
croccante. Mi andrebbe un Gin Tonic: mi portano il gin in un grande calice da vino, una fetta di limone sul ghiaccio già versato, l’acqua tonica a parte. Tanqueray e Fever Tree. Solo dopo chiedo una Badoit Rouge, intensément pétillante, per raccogliere, da ghiacci e vetro, gli zuccheri residui, gineprosi e tonificanti come una doccia con bagno schiuma silvestre. Nessuno, per sua fortuna, s’è avvicinato.

Non lo credevo, ma i prati di lavanda in fiore attorno all’Abbazia di Senanque sono quasi commoventi. Apparentemente precisi, bellamente disordinati in una prospettiva a perpendicolo. Questione di punti di vista. E’ ormai sera e c’è un grande silenzio. Rallento, stanco. Un gruppo di visitatori esce dal chiostro, alcuni bambini corrono nel piazzale, finalmente liberi di ridere. Una bancarella di souvenir si appresta a chiudere alla fine della giornata: compro un cappello di paglia, nastrato di giallo con un mazzetto di lavanda infilato di sghimbescio. Un bambino mi guarda con fare dubbioso, incuriosito dal cappello. Glielo regalo, e sembra gradire, piazzandoselo subito sulle ventitre. Poi tiro il fiato, come a intercettare gli esili refoli di un’aria salmastra che riesce a malapena ad arrivare dal mare. All’orizzonte vaporosi cumuli di nuvole: mi è sempre piaciuto guardare le nubi, indovinando forme e tratti. Ce n’è una che sembra chiaramente un pugno con un grande dito medio teso, puntato verso il cielo. Non so perché ma ho come la precisa sensazione che quella nuvola ce l’abbia con me.

 

Nota: la storia dell’uomo col registratore è una indegna citazione, sul filo della memoria, omaggio a Dino Buzzati e a un suo racconto che fa parte della raccolta Le Notti Difficili

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