Mamojà: il futuro del vino di Sardegna nel Cannonau di montagna


Il cannonau di Maoja a Beviamoci ill Sud

di Raffaele Mosca

E’ la nuova frontiera del vino sardo: una zona che sta all’Isola dei Nuraghi come l’Etna sta alla Sicilia. Una piccola enclave produttiva tra i 600 e i 900 metri d’altitudine, lontana geograficamente e spiritualmente dalle coste assaltate dai turisti, dove sopravvivono ancora alberelli centenari di Cannonau.

Un luogo che ha vissuto il cosiddetto miracolo dell’arretratezza: Mamoiada, 2400 anime, 250 cantine,  era rimasta così indietro che, a un certo punto, si è ritrovata avanti. Qui, fino a pochi anni fa, l’unico vino era lo sfuso, prodotto per autoconsumo o per il mercato locale. C’erano solo due aziende – Montisci e Sedilesu – che vendevano aldilà dalla Barbagia, la terra dei briganti e dei Mamuthones, i danzatori mascherati che, nel giorno di carnevale, mettono in scena una processione apotropaica di origini antichissime. Poi la svolta con Mamojà, associazione nata nel 2015 e cresciuta anche durante la pandemia. Un collettivo che ha l’obiettivo di far conoscere al mondo il potenziale silente di un luogo dove il Cannonau assume un’identità territoriale molto precisa, fatta di calore, carnosità, ma anche di equilibrio, di frutto integro e goloso da grande Grenache*, che fa il paio con profumi ammalianti, vicini in alcuni casi a quelli di un amaro erboristico.

I vini di Mamojà sono stati presentati a Beviamoci Sud con un banchetto dedicato e una masterclass condotta da Luciano Pignataro insieme a Giovanni Ladu, venuto direttamente da Mamojada in rappresenta dell’associazione. Un’occasione perfetta per assaggiare le Ghiradas di alcuni dei 31 produttori membri, quasi tutti garagisti – nel vero senso della parola – che fanno squadra per evitare che le poche centinaia di bottiglie prodotte da ognuno si perdano nel mare magno del mercato italiano. Ogni azienda vinifica almeno un vino di “Ghirada” – che in mamoiadino significa singola vigna – da viti gestite alla maniera dei contadini di una volta, ovvero ricorrendo solo a dosi minime di rame e allo zolfo (non più di un paio di volte in una stagione buona). Il protocollo di vinificazione è rimasto all’epoca pre-industriale: non si aggiungono lieviti o altri coadiuvanti enologici e non si filtra prima dell’imbottigliamento. Scelte prese per una questione di continuità con il lavoro che si fa da sempre, molto in linea con il trend del naturale/artigianale.  “ Parliamo di una produzione limitata, frutto anche di rese più basse rispetto alla media per il Cannonau – spiega Ladu – non facendo grandi volumi, ci basta puntare su di una nicchia di estimatori dei vini originali e genuini.”

Il marchio “Mamojà” figura sulle etichette come marchio del territorio, quasi alla pari della scritta “Derthona” sul Timorasso prima che Derthona Timorasso diventasse una DOCG.  E la domanda che giustamente fa Luciano Pignataro è : “ avete intenzione di separarvi dalla DOC generica del Cannonau (che copre tutto il territorio regionale)?”. La risposta è no: pur non riconoscendosi nel modello prestabilito e stagno del vitigno sardo, non credono che ci sia bisogno di una denominazione. Anzi, tra i vini ce ne sono alcuni classificati come semplici rossi da tavola.  “ Vogliamo cambiare la percezione del Cannonau: il consumatore deve entrare alle nostre degustazioni con un’idea di cos’è questo vino e uscirne con un’altra. Ma francamente non siamo interessati alle questioni politiche. Per adesso ci basta il marchio Mamojà.”

Cinque assaggi – più qualcun altro al banco – evidenziano una prerogativa non comune per i rossi del sud: la precisione, la purezza straordinaria del frutto, sempre accompagnata da un’acidità non trascurabile – anche i suoli granitici aiutano, abbassando il pH del vino – e a una spinta alcolica che avvolge, arrotonda, senza però appesantire. “ Si nota una bella coerenza stilistica –  fa notare Luciano Pignataro – è una prerogativa che non si trova così spesso nelle denominazioni italiane.”

Due parole sugli obiettivi futuri prima di passare agli assaggi. Di recente è stato avviato un progetto con l’agronomo toscano Ruggero Mazilli, già fautore del bio-distretto di Panzano,  che aiuterà i piccoli e piccolissimi a spingere ancora di più sulla sostenibilità, migliorando le tecniche di gestione del vigneto. Oltre a questo, c’è in ballo anche una zonazione con il supporto del “map man” Alessandro Masnaghetti, che ha già cominciato a studiare  le Ghiradas.

* Cannonau e Grenache sono lo stesso vitigno (ma coltivato in zone diverse).

I vini di Mamojada a Beviamoci Sud:

 

Mussennore – Cannonau di Sardegna Rosato 2021

Il buongiorno si vede dal rosato: se questo è buono, è difficile che i fratelli rossi siano da meno. E il rosato di Mussennore convince subito con la sua personalità tutt’altro che banale, evidenziata già al naso attraverso aromi di bacche rosse e rose in appassimento, timo e capperi in salamoia, un cenno ossidativo di fondo che lo rende molto caratterizzante. Ha una bocca coerente, con tannino appena percettibile, calore misurato, frutto ricco e saporito che s’intreccia a ritorni di macchia mediterranea nel finale bilanciato da un guizzo salino.

 

Mamojà – Ghirada Garaunele 2020

L’etichetta dell’associazione: 635 bottiglie vendute in occasioni speciali per finanziare alcuni progetti. Un vino sintetico, che esprime l’anima più “caliente” di Mamojada. Al naso spinge sul frutto – marasca, prugna, tamarindo – e su reminiscenze balsamiche e speziate. Ha una bocca densa, potente, con frutto in composta che avvolge il cavo orale. Tannini fitti e qualche rintocco ammandorlato – quasi chinotto – bilanciano la massa e accompagnano la chiusura ampia e calorosa.

 

Pino Beccoi – Duduli 2020

Una manciata di bottiglie dalla Ghirada di un piccolissimo vignaiolo: non cercatele sugli e-commerce perché non le troverete. Affascina con il suo profumo scuro e piccante: chiodo di garofano e peperone crusco, cioccolato fondente ed erbe aromatiche, un cenno di tabacco e solo dopo il frutto dolce (ma non sovramaturo). Ha un sorso ampio, avvolgente, con acidità discreta a sostegno e tannino quasi impalpabile, tanta frutta succosa e golosa che sfuma nel finale lungo, scandito da rimandi salini e di erbe aromatiche.

 

Melis – Don Zua 2020

Etichetta d’impatto, con pastore sardo in bella vista, per un vino di Ghirada da vigne settantenni che sfoggia un profilo scapigliato, “arcaico”, con un tocco di volatile che veicola ricordi di china e mirto, tabacco kentucky e sottobosco. Quel cenno acetico è una presenza discreta anche nel sorso, che ne guadagna in scorrevolezza, con una dinamica ben bilanciata tra frutto sempre ricco, avvolgente e spinta acida, ritorni di erbe officinali che amplificano la chiusura. Non universale, ma ha carattere da vendere.

 

Giampiero Tramaloni – Bakarru 2020

Ci si avvicina al secolo d’età del vigneto e il profilo si fa ancora più stratificato: aromi di visciole sotto spirito, china e liquirizia, botanicals da Vermouth e liquore al mirto si avvicendano al naso e ritornano precisi in bocca, a far da cornice a una progressione rinforzata da tannini decisamente più fitti. Il frutto sempre polputo dà spessore ed equilibrio, acidità e sapidità fanno la loro parte e calibrano un finale prolungato dalla scia alcolica. Un calabrone che aleggia come una libellula.