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Ristorante La Torre a Numana

 Ristorante La Torre, lumache

Ristorante La Torre, lumache

di Fabrizio Scarpato

Per salire sulla Torre devi scendere le scale. Vale per il ristorante, per le sue balconate e per la terrazza: tutto scenograficamente e trasparentemente a picco sul mare di Numana (dove di scale e Costarelle se ne intendono). Millemila coperti a sera, doppi e quadrupli turni, una macchina da guerra, una discoteca del cibo dove innegabilmente ti vien voglia di entrare. In cima alla scala c’è un vago assembramento: chiedono, aspettano, passano, respingono. Ai trentenni non viene chiesto nulla, ai quarantini un semplice attestato di sana e robusta costituzione, ai cinquantini e sessantini vien fatta firmare un’assicurazione prima di affrontare la scalinata illuminata a led che si staglia nel buio totale, che Sanremo, per dire, è una giacchettata. Zatteroni e tacchi dodici arrancano brutalmente in quella che, anche a causa del distanziamento, somiglia a una sfilata sul red carpet. Va senza dire che la scendo trotterellando con rincoglionita disinvoltura. La stessa che ostento armeggiando con la carta dei vini nonostante un solo, misero faretto, posto a quattro metri di altezza, si affanni nel vano tentativo di squarciare le tenebre che avvolgono il mio tavolo: anche per questo faccio timidamente notare al cameriere che quel vino forse è scritto con un nome fuorviante e storpiato (che fossi il produttore un po’ mi incazzerei), tale da sceglierlo solo per intuizione. Ne prende atto, guardandosi attorno, meditando se nel mio caso non fosse necessaria anche una visita neuropsichiatrica, perplessità che nemmeno l’evidenza dell’etichetta sarebbe riuscita a dissipare, ma forse, nell’oscurità, era cambiato anche il cameriere, chissà. Perché tutto gira vorticosamente sulla terrazza: tavoli, ospiti e pure i camerieri, giustamente mascherati, e non c’è tempo per nulla. Belin, che caspita ci faccio qui? Botta di vita? Recalcitro, mi acquatto come quando mi portavano a ballare e me ne stavo a guardare con tono di sfida: potrei ma non voglio, verrei ma è lo stesso, che Nanni Moretti mi faceva un baffo. Ma immancabile partiva un riff, un qualche giro di accordi e con malcelata sufficienza accostavo la pista: qualcosa tipo Wild Boys dei Duran, o Careless Whisper di George Michael (ma in quel caso ballare era evidentemente un optional con secondi fini). Insomma al tavolo arrivano le Lumache “Giovanni Perna” allo scoglio, con citronella e gratin di pomodori e mi butto nella mischia. Porzione pantagruelica (ma erano le dieci passate e una certa fame aleggiava), sapidità alle stelle (mi annoto mentalmente: arsura notturna), contrasti belli tirati ma soprattutto una consistenza fantastica, vuoi per la capacità di stare sul punto di cottura senza sgarrare di un secondo, vuoi per la qualità della pasta loretana, vuoi per entrambe le cose: chissenefrega, mi sono buttato, brutto a cattivo, e mi son divertito.

 Ristorante La Torre, lasagna

Ristorante La Torre, lasagna

E se qui si sta dalle parti dei Duran Duran, ovvio che la Lasagna leggera con spigola, gamberi e zucchine ha fatto il suo ruffiano lavoro dalle parti degli Wham. Nella cucina a vista una torma di cuochi detta il ritmo, loro e nostro, non disdegnando contaminazioni esotiche lungo la via della Seta.

Ristorante La Torre, polpo

Ristorante La Torre, polpo

Pungola e pimpanteggia la salsa tzatziki spolverata di lamponi nella Frittura di calamari, gamberi e sardoncini spinati, peraltro quasi una tempura, regalando vie di fuga insolite al palato, mentre il Polpo in bassa marea… green curry, latte di cocco, patate e salsa thai, pare un samurai apparentemente aggressivo ma elegante nelle movenze, un po’ di umami qua, un po’ di agrodolce là, insomma un bravo ragazzo.

Ristorante La Torre, fritto

Ristorante La Torre, fritto

Se è vero che spesso certa musica da ballare cogli anni viene rivalutata fino a diventare un cult, cosa dire della Meringa, limone, arancia e finocchio voluttuosamente e spiralosamente adagiata con sbuffo da sac à poche? Che per la miseria ci eravamo stancati delle mattonelle fracassate, dei tòcchi di asfalto a base di zucchero e albume accatastati come dopo intervento del martello pneumatico: questa al muscovado è bellissima, fantasticamente anni sessanta, poco dolce e ben bilanciata dalla freschezza della combinazione agrumi e ortaggi, già vista, ebbene sì, ma in fondo un bello sprazzo di contemporaneità.

 Ristorante La Torre, meringa

Ristorante La Torre, meringa

Risali le scale rimuginando una qual certa soddisfa, che quasi ti vergogni: ma come… sei andato a ballare? E tra una prevalente sensazione di cucina polposa attraversata da lampi delicati, piazzati al punto giusto, rimbalza nella mente, cercando di corrompere tutte le sinapsi della memoria, quel piatto di pasta secca, quelle lumache tricolori (ebbene sì…) dalla consistenza disumana, solida, che forse ho incontrato solo nelle Ruote Pazze di Benedetto Cavalieri. Si fa strada l’idea che quella solidità, quella tenuta in cottura possa significare anche «restare nel tempo», rimanere nella memoria, quasi un bagaglio culturale comune: una consistenza umanistica, identitaria, in contrapposizione a tanta inconsistenza, nei piatti, nei modi, nei pensieri. E così inciampando sull’ultimo gradino, zompetto come Albertone (a proposito di pasta…), appagato da quel piatto brutale, grosso e sfacciato. Perché ogni tanto è bello anche ballare, coi bassi che ti spettinano i pensieri. Avanti un altro. Wild boys.