Peppino Fortunato di Contrada Salandra, la fantastica storia del vignaiolo che sussurra alle api
di Giulia Cannada Bartoli
Le vigne di Contrada Salandra si trovano sul terreno “ballerino” dei Campi Flegrei. Dal greco antico φλέγω, phlégō, “brucio”, i campi ardenti sono un areale di profonda valenza storica, geologica, archeologica e paesaggistica.
Il recente riacutizzarsi del bradisismo non facilita le cose. Il nome della cantina si deve alla strada Vicinale Contrada Salandra, probabilmente chiamata così, in onore del Presidente del Consiglio del Regno d’Italia, dal 1914 al 1916, Antonio Salandra.
Qui sulle sabbie vulcaniche di Pozzuoli, in Contrada Tre Piccioni, tra Coste di Cuma, Monte Sant’Angelo e Monteruscello, Giuseppe Fortunato, silenzioso vignaiolo, alleva le sue vigne di falanghina e piedirosso. Sono vecchie viti a piede franco, perché il terreno è composto da sabbia e cenere vulcanica e qui, dove si combatte per strappare la vigna al cemento, la fillossera non alligna.
Coste di Cuma è quasi un viottolo di campagna, solo in parte asfaltato che, a poca distanza dall’affollato quartiere di Monteruscello, fende a mezza collina per spuntare in direzione di Cuma, appunto, sulla costa. I suoli vulcanici beneficiano anche della vicinanza del mare che, in linea d’aria, dista davvero poco. I vigneti sono appena un kilometro e mezzo dal mare e sono a circa 90 metri a Licola e 250 metri d’altezza a Monteruscello.
Le vigne sono quelle messe a dimora dal padre di Giuseppe a Licola e quelle sui terreni della famiglia di sua moglie Sandra, compagna di vita e di lavoro, a Monteruscello. A questi 3 ettari si aggiunge circa 1,5 ettari di un vecchio amico che aveva deciso di espiantare le vigne.
Le piante hanno oltre 60 anni, tutte a piede franco, mentre, quelle nuove sono frutto di selezione massale fatta in vigneto. La selezione massale prevede la riproduzione di un intero vigneto, con lo scopo di mantenere la massima variabilità genetica all’interno della stessa varietà di vite. Il risultato è ottenere piante con diverse caratteristiche fisiologiche e produttive. Se questo, da un lato comporta sicuramente un maggior carico di lavoro, dall’altro, porta a un equilibrio dei risultati e a vini più armonici.
Accanto alla cantina, c’è uno spazio dedicato alla coltura delle marze che servono sia, alle necessità dell’impianto, sia, a studiare rare e antiche varietà autoctone che animano il vigneto qua e là: colagiovanna, ricciulella, marsigliese, annarella, suricella e uva cavalla.
Giuseppe, Peppino per tutti, è un uomo tranquillo, come un fiore del suo terreno e laborioso come un’ape, ma non produce fiori bensì, vini che realizza grazie anche alle api, sue naturali aiutanti. Le api, in arnie ordinate, sciamano di fiore in fiore e nutrono la biodiversità dei vigneti. Tra un filare e l’altro regna la vegetazione spontanea con un mare di fiori profumati molto nettariferi. A fine giugno si trincia lasciando erba e fiori a trasformarsi in nutrimento per le viti, che sono molto vigorose. Giuseppe esegue anche la concimazione fogliare nutrendo la pianta con la propoli. Oidio e peronospora non danno grandi problemi grazie alla costante brezza marina. Più noiose negli ultimi anni sono cocciniglia e tignola che si combatte con le trappole.
L’amore per le api gli è stato “attaccato” da Sandra, apicultrice già dagli anni ’90. Sommando le due passioni è venuto fuori un “api/viticoltore”.
Giuseppe e Sandra sono diventati apicultori per passione, ma nel seguire le api e la cura degli alveari si sono trovati nel punto esatto in cui l’agricoltura diventa il centro esatto dell’esistenza, senza possibilità di ritorno.
Grazie alle api, Giuseppe ha sviluppato anche un rapporto con la vigna del tutto particolare, diremmo da apicultore. Ora, gli apicultori si muovono con calma, osservano e ascoltano con attenzione, ogni gesto è misurato e quasi scolpito, come se interagire con l’alveare facesse parte di una particolare liturgia della natura tramandata da secoli. Si percepiscono nella relazione con un alveare rispetto e delicatezza. Nei cinque ettari di vigna a piede franco su suoli vulcanici con poca argilla, Giuseppe è riuscito a portare la stessa cura, l’identico omaggio all’armonia tra uomo e natura, in un ecosistema che rappresenta una scintilla di resistenza contadina nella forzata e scellerata urbanizzazione dei Campi Flegrei.
Le api sono presenti persino sulle etichette: c’è un gruppo di lettere ma, non si capisce cosa c’è scritto. Rappresentano un’ideale sciamatura. A primavera le api, se la regina è vecchia, o per altri motivi, sciamano e vanno a costruirsi casa altrove. Con quelle lettere, Giuseppe e Sandra hanno inteso raccontare il parlare degli esseri umani… che credono di essere al centro del mondo ma, ne sono solo una piccolissima parte. L’ape che esce dalla sciamatura raffigura madre natura. Dopo molti anni di osservazione, Giuseppe ha concluso che l’ape è un elemento fondamentale per creare equilibri, che purtroppo negli ultimi tempi si stanno rompendo. Non a caso, i francesi usano gli alveari come “termometri” indicatori della salubrità ambientale. Per questa ragione i trattamenti in vigna sono esclusivamente con rame e zolfo, perché le api sono molto sensibili a prodotti chimici di sintesi. La credenza che a maturazione l’uva possa essere danneggiata dalle api è un mito metropolitano. Gli insetti hanno mandibole molto piccole, non riescono a rompere il chicco d’uva. Al contrario, le hanno grandi le vespe orientali, che stanno creando importanti problemi sia, alle api, che, alla viticoltura. Le api invece, fanno quasi l’opposto, se vanno a succhiare dall’apertura praticata dalle vespe, grazie ad una specie di saliva che secernono, riescono persino a riparare il chicco.
Il Casale in acquerello riprodotto in etichetta raffigura il nucleo centrale di una struttura rurale del 1600. Si trova nella parte più alta di Monteruscello, sotto il bosco del Castagnaro, una grande area verde tra Pozzuoli e Quarto, censita tra i luoghi del cuore del FAI e scampata al destino di discarica.
Da sempre i Campi Flegrei sono conosciuti per le produzioni viticole, ortive e da frutto. Giuseppe mi racconta: “La nostra è una terra ricca di vitigni autoctoni, in passato erano moltissimi. Alcuni li sto testando per verificarne il potenziale. Il problema è non poter disporre dello spazio dove piantarli, poiché fino alla metà degli anni ’90, la nostra zona è stata selvaggiamente attaccata da un’urbanizzazione devastante. Agli inizi del ‘900 la sola Pozzuoli contava circa 8000 abitanti, oggi supera i 100.000. Facciamo una grande fatica per assicurarci anche solo mille metri di terra”.
Papà Francesco comprò i vigneti negli anni ’70, oltre le viti, c’erano tanti alberi da frutto. Lui era un falegname ma, anche grande appassionato di agricoltura, appena poteva, lasciava la falegnameria nel centro storico di Pozzuoli e si rifugiava in campagna, coltivando di tutto, persino noccioline americane. Un anno ne produsse talmente tante che le regalò a tutta Pozzuoli. Francesco costruì anche casa, che doveva essere il buen retiro di campagna, ma, che, dopo il bradisismo degli anni ’80, divenne dimora stabile della famiglia, dove le viti crescevano rigogliose in una meravigliosa commistione di colture.
Intanto Peppino si era iscritto a ingegneria, ma alla fine degli anni ’90 si appassionò al vigneto, decise di razionalizzarlo senza estirpare le vecchie viti, facendo la propagazione con il tradizionale sistema puteolano della “calatoia”.
Oggi c’è ancora un misto di piedirosso e falanghina, così com’era in origine. Rigogliose piante di Piedirosso, che Giuseppe non ha avuto il coraggio di sradicare, “chiudono” i filari di falanghina. La passione fu così travolgente che, ormai da decenni, è rimasta indietro soltanto la tesi in ingegneria civile e edile. Racconta Peppino: “Meglio se avessi fatto agraria o ancor meglio, filosofia. Un vero agricoltore, indipendentemente dagli studi fatti, ha un rapporto molto intimo con madre natura, che impara ad ascoltare, ponendosi una serie di domande, anche complesse. Per questo credo che una laurea in filosofia possa aiutare. La mia non è una famiglia storica di viticoltori, per questo mi considero atipico rispetto alla tradizione viticola flegrea”.
Da bravo ingegnere, Giuseppe ha eseguito una meticolosa analisi dei suoli: a Licola argilla, limo e 80% di sabbia. A Monteruscello, argilla, limo e 70% di sabbia. Terreni ricchi di potassio e poveri di magnesio.
Da subito Peppino, probabilmente antesignano nei Campi Flegrei, iniziò con le macerazioni, a raccogliere in ritardo e a fare diradamenti. La prima vendemmia Doc è tra il 2004 e il 2005, facendo due scelte nette in contro tendenza: lavorare solo in acciaio e attendere almeno un anno prima di commercializzare la Falanghina e due per il Piedirosso. Una scelta molto discussa al tempo, ma che oggi, a vent’anni dalla prima etichetta, si è dimostrata vincente.
Negli stessi anni conobbe Sandra Castaldo originaria di Monteruscello, dove la sua famiglia possedeva parecchi ettari di terra. Il sogno della famiglia era creare una moderna azienda agricola per la produzione di frutta: il papà di Sandra realizzò un pozzo, ma, prima dell’arrivo dell’acqua, morì. Sandra aveva appena sei anni, quindi il progetto non andò avanti.
Poco prima di conoscere Giuseppe, Sandra si laurea in Economia e Commercio e succede che i due leggono su “Affari e Finanza” un articolo che invogliava chi volesse investire e avvicinarsi all’agricoltura. La coppia aveva conosciuto un dirigente Rai appassionato di apicoltura sin da bambino. Si apre un mondo: decidono di mettere su un laboratorio nel centro storico di Pozzuoli. La produzione cresce fino a creare un’associazione di apicoltori, oggi nazionale con circa 400 associati.
La cantina è nata nei locali, dove c’era la falegnameria di papà Francesco. Durante il Covid è partito il progetto di ampliamento per una migliore sistemazione dei silos e della zona di stoccaggio delle bottiglie. In fondo alla cantina, Giuseppe mi mostra orgoglioso il silos della prima vendemmia.
Per Giuseppe è fondamentale conservare il patrimonio viticolo, tanto che si è dedicato alla dendro-chirurgia per curare le piante dal mal dell’esca e cercare di conservarle. Questa tecnica, messa appunto in Francia, prevede l’asportazione del legno malato attraverso l’utilizzo di strumenti come seghe elettriche o a motore. S’individua la parte del ceppo con legno cariato (tessuto spugnoso di colore chiaro) e si scava il legno per rimuovere tutte le parti attaccate. E’ un intervento invasivo, ma le viti riescono a reagire.
Rese per ettaro bassissime (20/30 q.li). Per il piedirosso, che è un vitigno particolare per la sua sensibilità, rispetto agli aspetti pedoclimatici e per la sua fertilità non elevata, si è scelto un impianto a “cordone capovolto” sulla scorta di quanto facevano gli anziani. In questo modo si aumenta il numero di gemme e, quindi, il numero di grappoli.
Peppino, il vignaiolo, è uomo del fare, non ama apparire, né parlare troppo: la vita mondana, le relazioni, non sono mai state la sua passione, si alza alle cinque del mattino, sostanziosa colazione con le marmellate di Sandra o il miele delle sue api e alle sei è già tra le sue viti, fino al calar del sole.
Soltanto l’esperienza di camminare le vigne con Giuseppe può far comprendere l’affastellarsi d’idee e fatica che il mite (in apparenza) vignaiolo/filosofo/ingegnere concentra su ogni singola vite, ceppo e grappolo. Mi accoglie in piena tenuta da campagna, cappello, per il sole, attrezzi in vita e mani sporche di terra. Il suo racconto è un silenzioso spettacolo di adorazione, gli occhi brillano in contemplazione del capolavoro di Madre Natura.
Giuseppe e Sandra hanno sposato l’idea di un commercio lento, giusto e quindi, intelligente, arrivando a posizionare Falanghina e Piedirosso dei Campi Flegrei su una fascia di prezzo decisamente superiore alla media ma, ben recepita dal mercato. Il loro intero stile di vita si rispecchia in entrambe le attività. Le due nipoti di Giuseppe sono un valido aiuto per la cantina.
L’apicultura è biologica certificata mentre i vigneti sono condotti in regime biologico non certificato. Nel cuore di Pozzuoli, a due passi dall’Anfiteatro Flavio, c’è il piccolo negozio condotto da Sandra, Dolci Qualità. Qui si vendono il miele e gli altri prodotti delle api, le confetture fatte da Sandra, il vino di Contrada Salandra, altre produzioni anche fresche da agricoltura biologica. Dolci Qualità è anche un hub per il commercio equo e solidale, dove trovare prodotti, come cioccolato e caffè, provenienti da tutto il mondo.
Oh, finalmente dopo la lunga storia di Peppino, di Sandra e delle loro amiche api…eccoci al vino!
Mi pare superfluo dilungarmi ancora sulle caratteristiche del piedirosso flegreo…
I vini di Giuseppe sono frutto di estrema specializzazione e legame con il territorio. Per lui ogni singolo grappolo d’uva è come il sommo sforzo di raggiungere un equilibrio che la vite completa lungo l’intero ciclo. E’ un equilibrio diverso ogni anno e il vino è quasi una gestazione. I suoi vini gli assomigliano: schivo, un po’ come Peppino, il Piedirosso ha bisogno del suo tempo per aprirsi, mantenendo comunque toni sussurrati ed eleganti.
Il tempo di vendemmia si decide in corso d’opera. A seguire macerazione di un paio d’ore in pressa e poi in vasca per quasi una giornata. La fermentazione parte con un lievito neutro e fermento in acciaio. Nessun travaso, si conservano le fecce fini sulle quali il vino riposa per almeno 4-5 mesi con batônnage e delestage, se necessari. Segue un primo travaso e imbottigliamento, con non poco sforzo, nel periodo della vendemmia. Il vino affina in bottiglia per almeno due anni prima dell’uscita sul mercato.
La consulenza enologica è da anni affidata alla mano sicura di Carmine Valentino.
Per Giuseppe il vino è in primo luogo opera dell’uomo, non comprende, né condivide la diatriba tra vini naturali e non. Non esistono protocolli di vinificazione: il vino è la risultanza di un’esperienza annuale e di un rapporto strettissimo con il vigneto. E’ il desiderio di trasformare l’uva in un prodotto, figlio del proprio territorio e della singola annata.
Queste convinzioni sono riportate anche in retro etichetta: “I vini di una terra non sono merci ma racconti di vita. Esprimono le colline e le pianure da cui hanno tratto origine, narrando le storie di uomini che, generazione dopo generazione, li hanno creati. Raccontano la terra che li produce in modo più esauriente di qualsiasi libro di storia o guida turistica. Berli vuol dire diventare parte di una terra.”.
Il piedirosso 2021 è entrato in commercio a inizio 2025, risultato di un’annata magra non di grande quantità e abbastanza asciutta. Vendemmia inoltrata, intorno al 20 di ottobre.
Il calice si presenta rosso rubino vivace con qualche riflesso granato, di nitida trasparenza e grande luminosità tipica del vitigno flegreo.
Al naso e al gusto il vino ha bisogno di qualche minuto per aprirsi: somiglia a Peppino e, come lui, va scoperto un po’ alla volta.
All’olfatto arrivano in precisa successione, geranio, freschissima viola, ribes e ciliegie scure, poi le erbe mediterranee, spezie e ancora leggere note ematiche, incenso, sentori fumé e mineralità a ggo-go. Al palato tutto ritorna con progressione ampia e fluente, dritto e sapido per un sorso lungo e verticale dal tannino leggero e ben amalgamato.
Il sorso è snello, teso, lievemente tannico con la chiusura salmastra che contraddistingue il vitigno flegreo. Freschezza e struttura (13%) sono in perfetto equilibrio, e a quattro anni dalla vendemmia, (solo acciaio) preannunciano sicuramente lunga vita.
Finezza, pulizia, leggerezza, modernità e grande capacità di evolvere bene anche nel lungo periodo, rendono il piedirosso di Peppino Fortunato un “Super Flegreo” della viticoltura campana e non solo.
I Campi Flegrei si percepiscono nelle note iodate e nel gusto definito e consistente. Il nostro vignaiolo, tra i primi nei Campi Flegrei, conserva gelosamente l’intero archivio delle annate di Contrada Salandra sin dal 2005.
In questi 20 anni l’ingegnere/filosofo ha mantenuto una coerenza stilistica rigorosa, in linea con le singole annate.
Il piedirosso flegreo, l’ho detto più volte, è uno di quei vini agili e versatili che sfata il mito che il rosso non si abbini alla cucina di mare. Uno su tutti, il tubetto con il sugo dei polpetti alla Luciana. Si esprime bene anche sulla nostra parmigiana di melanzane, sulla pizza Marinara con le alici di Rosario Silvestri alla Sanità e sulla Genovese di terra o, meglio ancora, su quella irpina di baccalà.
Prezzo medio a scaffale, clamoroso, sui 20,00 €.
I progetti per il futuro sono tanti. Giuseppe e sua moglie Sandra vorrebbero provare a utilizzare la botte grande per cercare di superare alcune criticità a volte presenti sul piedirosso. Hanno cominciato a rendersi indipendenti per l’elettricità con un sistema di pannelli fotovoltaici. Peppino non smette di cercare nuove parcelle, non tanto per accrescere la produzione, bensì, per tutelare il territorio dall’invadente antropizzazione.
Non pensa tanto a terminare il corso di studi in Ingegneria, quanto ad approfondire, giorno e notte, quella che ormai è la sua passione di vita, la viticoltura. Sta cercando infatti, di mettere su una scuola di potatura a servizio di tutti per condividere le conoscenze acquisite nel tempo, convinto com’è, della sua “nullità” da singolo e che da soli non si va da nessuna parte.
Azienda Agricola Contrada Salandra di Fortunato Giuseppe,
Via Tre Piccioni, 40 Pozzuoli 80078 (Na)
www.contradasalandra.it [email protected].
Tel. 081 526.52.58 -339.274.43.72
Ettari:5 Enologo: Carmine Valentino.
Vitigni: Falanghina e Piedirosso. Bottiglie: 20.000













