Ravello, Deucalione e Pirra all’Hotel Palumbo


Luigi Cappotto ha 58 anni, la pelle bruciata dal sole che bacia vigna San Lorenzo dall’alba al tramonto: «Ho lavorato sin da piccolo con il padre del signor Marco. Facevo il cameriere all’Hotel Palumbo, ma quando, giusto vent’anni fa, si decise di fittare e coltivare questi tre ettari sotto la chiesa di San Lorenzo a Scala cambiai mestiere». Tre ettari a mezza collina, con una buona escursione termica: le viti di San Nicola, Biancatenera, Biancazita, Ginestrella, di Aglianico, Piedirosso e Serpentaria soffrono il caldo di giorno e il freddo di notte.

Ma, ce lo hanno insegnato i francesi, è proprio questo sbalzo una delle più importanti condizioni per produrre un buon vino: la vite deve soffrire. Luigi Cappotto con la moglie Rosa trascorre tutto il giorno ad arrampicarsi tra i terrazzi della vigna, proprio come hanno fatto da oltre due millenni i contadini nella loro guerra alle rocce ripide di questa Costiera romantica e gotica. Su, nella vicina Tramonti, curano un castagneto e un po’ di terra.

A settembre, e sino a metà ottobre, Deucalione e Pirra raccolgono, con l’aiuto di una decina di folletti, il sudore speso durante l’anno e portano a bordo di un rumoroso e scoppiettante furgoncino le uve a quattro chilometri, a via San Giovanni del Toro. Precisamente nelle cantine Episcopio dove vengono vinificate secondo le indicazioni dell’enologo Santolo Buonaiuto. Poi Luigi e Rosa partono in vacanza per paesi lontani, anche là dove Bacco è stato sconfitto, sia pur momentaneamente. I vini Il rosso, blend di Aglianico, Piedirosso (o Per ’e Palummo) e Serpentaria, frizzantino e dispettoso da giovane con gli anni diventa austero e femminile. Incredibile: sembra nato proprio per la cucina di pesce di Ravello. Gli inglesi, gli americani e i tedeschi lo preferiscono decisamente al bianco: lo usano bere come vino da meditazione prima di cenare, oppure a tutto pasto. Da sempre. Prima, cioé, delle strombazzate ricerche sulle qualità benefiche del vino rosso. Sapete, si è trovata la spiegazione scientifica al famoso paradosso francese. E cioé: come fanno i pronipoti di Asterix ad mantenere basso il tasso di colesterolo nel sangue se mangiano solo grassi animali? Oggi si sa quasi tutto sulle proprietà del vino rosso, la cui vinificazione, è noto, si fa con tutta la buccia dove si concentrano le virtù medicinali di Dionisio.

Ma a noi, fatalisti, di tutto questo non ci frega proprio nulla e lo beviamo perché ci piace e basta: pagani durante la Controriforma, pagani nel fine millennio segnato dall’ossessione delle barrette alimentari dimagranti e dalle sgradevoli sudate in volgari palestre. Senti al primo sorso il legno dolce dove viene conservato per due, tre, cinque, dieci, anche vent’anni. Poi prevale l’abboccato. Non troppo. Insomma un vino ermafrodita, difficile anche se non complesso. Il bianco di Marco è fresco, molto profumato: Biancazita, Biancatenera (i nomi usati in Costiera per la Falanghina e il Biancolella), e poi San Nicola e Ginestrella. Siamo noi campani a scolarcele: si sa, il nostro gusto predilige il bianco giovane, soprattutto sulla costa. I bianchi squilibrati, acidi, quelli che difficilmente piacciono al di sopra del Garigliano, vanno bene con le spezie e i sapori della nostra cucina araba e spagnola così esuberante. Ci scopri la Costiera in cartolina, oppure quella un po’ mondana delle terrazze di Positano e Praiano, quella delle barche e dei ristoranti sulle spiagge quando si arriva a tavola a bordo di piccole lance guidate dagli sciuscià del mare. Infine il rosé, decaduto nell’uso e difficile da abbinare, che nulla ha da invidiare a quelli salentini, memoria del bel vivere degli anni Sessanta, quando esplose la Costiera come moda del jet set internazionale. Storia di Marco Ma perché Episcopio? «Il mio bisnonno Pasquale Palumbo – racconta Marco Vuilleumier – abitava a villa Episcopio. Qui, verso la metà del secolo scorso trasformò la residenza in un punto di ritrovo, una pensione insomma, per i viaggiatori del Grand Tour che salivano da Amalfi in groppa agli asinelli». È poco dopo l’unità d’Italia che nasce l’etichetta «Vini Episcopio». Sì, anche allora Biancazita, Biancatenera, eccetera. Ma a quei tempi c’era molto più vigneto perché non esistevano sindaci che in cambio di voti o mazzette rilasciavano a cuor leggero licenze edilizie. Qualche cliente si affezionava e, colpito dalla nostalgia dei vigneti di Villa Cimbrone o Villa Rufolo, scriveva a Pasquale per ordinare una o due casse del vino bevuto a Villa Episcopio. Vino e limoni, lo leggiamo nelle carte conservate da Luigi Aceto di Amalfi, il papà del limoncello, nell’Ottocento si imbarcavano nel porto di Maiori. «Ancora oggi – dice Marco – ricevo piccoli ma numerosi ordini. La mia non è una grande produzione, appena 30mila bottiglie, non potrà mai entrare nelle grandi catene di distribuzione. L’uva non basta e sono costretto a rifiutare molte richieste. Tanti amici americani sono stanchi dello Zinfaldel e mi assediano. Ricordo anche di un ambasciatore francese trasferitosi da Trinidad in Australia».

Ma è proprio questa la ricchezza nascosta di questo vino: se ben fatto e ben venduto può valere tanto oro quanto pesa, come tutti gli oggetti del desiderio. In un mondo assediato dal Cabernet Sauvignon e dallo Chardonnay la Pepella e il San Nicola costituiscono la zattera di salvataggio dei fedeli mediterranei di Bacco. Pasquale Palumbo sapeva tessere bene la rete delle relazioni: sua moglie, non la prima, scozzese, ma Elisabetta von Wartburg, da Berna a Ravello per amore e per il profumo della zagara, conosceva la famiglia Wagner e narrò a Richard delle meraviglie del posto. Così il grande musicista si spinse sino a Ravello, bevve il vino Episcopio e scoprì il «magico giardino di Klingsor» come si legge nello storico registro degli ospiti gelosamente custodito in una antica madia. Da Jessy, figlia di primo letto di Pasquale, e da Edvine Vuilleumier nasce Pasquale, il papà di Marco. L’intraprendenza diventa tradizione: il piccolo albergo si sposta da Villa Episcopio a Palazzo Sasso dove tra il 1928 e il 1978, l’anno del definitivo trasferimento nell’attuale sede, a Palazzo Confalone, è passato mezzo mondo: Paul Valéry, Maurice Rostand, Curzio Malaparte, André Gide, Truman Capote. E poi Badoglio, Togliatti, la principessa Alessandra di Danimarca, Max von Papen, Umberto di Savoia. L’Hotel Palumbo, e Ravello, sono soprattutto luoghi della mente. Dalle preghiere del papa inglese Adriano IV a quelle di Sant’Alfonso de’Liguori nella vicina Scala, ai sospiri di Greta Garbo nelle notti d’amore bruciate con il grande direttore d’orchestra Leopold Stokowski, alla spruzzata mondana di Jacqueline Kennedy e Grace Kelly. E che dire della foto, giustamente riprodotta nello splendido Cult Book di Michele Schiavino e Igor, del duro Humphrey Bogart, «ncoppa o’ ciuccio» all’ingresso di Ravello? Queste donne e questi uomini non hanno bevuto il vino Episcopio? Non crediamo proprio, gli astemi lasciano questi luoghi senza capirne lo spirito: una sorta di colta sospensione dal tempo e dagli affanni post-ideologici berlusconiani pieni di sederi, tette e punti percentuali sulle provvigioni pubblicitarie. Impossibile pensare di visitare qualsiasi paese e capirne la gente senza averne sentito i profumi del mercato e bevuto il suo vino. Oggi Marco Vuilleumier, come suo padre, suo nonno e suo bisnonno, si divide tra l’albergo arabo-siculo, pavimentato negli anni Cinquanta perché set del film «Il Tesoro dell’Africa» e la cantina, appena a cinquanta metri. Hotel Palumbo e Vini Episcopio, dunque. «Naturalmente – spiega – la gestione dell’albergo mi assorbe moltissimo, ma continuo a produrre vino per conservare la tradizione, per cultura, per continuare a far viaggiare sulle tavole una etichetta che ormai ha 140 anni». Il mercato È incredibile come la rinascita del vino meridionale è tutta dovuta alla caparbia determinazione dei soli produttori privati e alla sensibilità di qualche funzionario pubblico, come Michele Manzo dell’Ersac, che ha passato molti anni tra i vigneti della Costiera.

I vignaioli terroni sono stati spinti a piantare Trebbiano, Sangiovese, Montepulciano, vitigni facili con una grande resa per ettaro. Erano i tempi in cui il vino era una sorta di integratore alimentare, tante calorie a basso prezzo. Poi, lenta, la svolta a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta, quando quel vecchio prodotto, il «vino del contadino» che sporcava il bicchiere ed esaltato come genuino non ha finalmente avuto più mercato. Chi ha resistito sui vitigni autoctoni, portati dai greci e goduti dai romani, oggi può presentarsi a testa alta sul mercato e porta all’incasso le cambiali. Solo chi ha scelto la strada più difficile ora è pronto alla sfida, collocandosi in una nicchia di mercato dove le ciclopiche produzioni sudamericane, australiane e californiane non potranno mai arrivare. Berrete mai un San Nicola o un Pepella della Napa Valley? In Costiera la richiesta di vino di qualità è in crescita. La vite come lo sfusato amalfitano. Nel breve volgere di tre, quattro stagioni, i produttori sono passati da una crisi apparentemente irreversibile al boom della domanda. «C’è poca uva – si lamenta Vuilleumier – perché nessuno trovava conveniente coltivare la vite. Prima era più semplice acquistarla da fuori. Ma oggi, per produrre e vendere la Doc, è indispensabile seguire con pignoleria il disciplinare. Al momento, oltre ai tre ettari di Scala, che stava per diventare un camping, ho i contadini della zona dai quali acquisto il prodotto. Ma per far fronte alla domanda non sono più sufficienti. Sto cercando altri terreni, ma è davvero difficile trovarne». La Denominazione d’Origine Controllata «Costa d’Amalfi», questa la dizione esatta, studiata nei minimi dettagli tecnici proprio da Michele Manzo, ha dunque segnato il cambio della marcia perché è solo nella qualità che c’è il futuro produttivo del vino della Terra delle Sirene. Il vino «Costa d’Amalfi» non è monovitigno, nella bottiglia entrano tutti i vitigni della zona e ciascuno conferisce al prodotto un carattere. In particolare il profumo ammaliante nel rosso è dovuto alla Serpentaria, che unisce in matrimonio l’Aglianico, il padre di tutti i vini, portato dai greci nell’Italia Meridionale, e il Piedirosso, tipico della costa campana e delle isole. L’Aglianico, cugino del Nebiolo, ha grandissimi interpreti da sempre e ha scalato le vette delle classifiche nazionali. Il Piedirosso registra un forte recupero negli ultimi anni ed alcune aziende lo stanno trasformando da vino di pronta beva, cioé da consumare nell’arco di un anno, al massimo due, dalla vendemmia, in un prodotto da invecchiamento. L’uva Serpentaria, come la Ginestrella e il San Nicola per i bianchi, invece non si affaccia mai da sola in bottiglia ma, lo ripetiamo, è decisiva nel conferire il caratteristico profumo alla «Costa d’Amalfi». Viva don Pasquale Da Villa Rufolo a Villa Cimbrone, il paesaggio più bello del mondo secondo Gore Vidal, curiosando tra le chiese di San Giovanni del Toro (quella che amiamo di più), San Francesco, Santa Chiara, Santa Maria a Gradillo, girando per vicoli, giardini, negozietti, strapiombi, lo spirito ci prepara al vino Episcopio. Sicché i profumi delle foglie di limone alla brace con alici o formaggio di Tramonti, delle crespelle, degli scialatielli allo spunzillo, e di piccioncini farciti, ravioli, scaloppe di spigole, risotti con fiori di zucca, gamberi, pezzogne, piede di maiale stracotto, tagliolini al limone, fritture di paranza, spaghetti alla Nerano, polipetti in cassuola, seppie e calamari imbottiti, scampi gratinati al forno, totani con patate sono solo uno splendido pretesto per rendere omaggio a don Pasquale Palumbo.

Il Mattino, marzo 1999