Dopo l’alluvione, ritorno a Vernazza


Vernazza, la piazzetta

di Fabrizio Scarpato

Il mare adesso è un po’ più lontano. Anche il venticinque ottobre dello scorso anno è un po’ più lontano, ogni giorno di più, ma non ancora abbastanza.

Tornare a Vernazza e non sapere bene perché. Con fastidio allontani dalla testa l’idea che scendi dal treno per curiosità, e al tempo stesso ti dici che bisogna andare, non fosse altro per un panino con le acciughe, un pezzo di focaccia, una cosa purchessia, un pretesto per far ripartire un forno, un bar, la vita, insomma. Cerchi normalità, come era normale ogni tanto arrivare sin qua, nella più bella delle Cinque Terre, più bella perchè più difficile, più lontana da tutto, più aspra di colori. Nessuno immaginava quanto quella bellezza fosse fragile e vulnerabile.

C’è un finimondo di gente che dalla stazione scende al mare lungo il caruggio grande, appena ripavimentato: il paese è qui e provare a risalire verso monte potrebbe fare troppo male, alla vista e al cuore. Fuggi infastidito dai ricordi, dal cicaleccio sussurrato e commosso del com’era, del cosa c’era: non hai mai fatto caso, tu che turista vero e proprio non sei mai stato, dove fosse il fornaio, o quel negozio di souvenir, o piuttosto la cantina dei vini, la farmacia, a che punto fosse la macelleria. Ti mancano le magliette ricordo appese con le mollette, ti mancano i cartoni di vino da tre bottiglie, ti manca il profumo di frittura. La gelateria quella sì, te la ricordi. E non puoi far altro, perché non c’è più.

Vernazza, un litro di vino rosso

Eppure lungo la discesa si lavora, intonaco e pittura per rincorrere come possibile la stagione: mancherebbero i colori, ma tutti i fondi ancora chiusi hanno porte dipinte, e i colori sono vivissimi, paragonabili a quelli del cielo che oggi è di un blu pazzesco. Qualche tedesco cammina con passo felpato, pedule e bastoncini da trekking: forse i sentieri sono aperti, forse hanno potuto godere dei papaveri in mezzo agli olivi tra il Gùvano e Prevo, sul sentiero numero due che viene da Corniglia. Hanno le facce rosse, sembrano contenti.

Vernazza, arcobaleno

La macchina fotografica recalcitra nella messa a fuoco, trova pretesti per non fotografare e mi sembra anche giusto: si scende in apnea a cercare l’aria della piazzetta, giù sul mare. Ecco Vernazza, quella che conoscevo, piena di gente, i barconi che approdano di prua con la spericolatezza di un abbordaggio, i ristoranti, i bar, la chiesa. E gli ombrelloni. Mancano ancora quelli di Gianni Franzi, la trattoria sotto il portico proprio alla fine del caruggio: solo quando ci saranno anche quegli ombrelloni, proprio quelli, grandi ed embricati l’uno sull’altro, si potrà tornare a respirare con un filo di sollievo. Per poi guardare lassù, al verde dei vigneti, alla collina a strapiombo sulla torre: monito e promessa, cruccio e disperazione, salvezza e certezza di ricominciare. Memoria.

Vernazza, portoni dipinti

Su un tavolino del porticciolo si materializzano un bel litro di vino rosso e qualche bicchiere: non è un Cinqueterre, ma chi se ne importa. I turisti sorridono, sonnecchiano, prendono il sole. Gli stranieri poi hanno sempre chiesto vino rosso, pizza e cappuccino: era normale, è normale. Di quella banale normalità che apre il cuore, ogni giorno di più.

Vernazza,gli angeli del fango

Fino a quando nessuno farà più caso a una barca bianca e rossa che galleggia inerte lì sotto, su una spianata di onde immobili, fatte di terra e sassi.

2 Commenti

  1. Bel pezzo Fabrizio: speriamo in tanti che Vernazza risorga al più presto in tutta la sua unicità.

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