Tra le vigne di Montevetrano con la regina del rosso italiano


di Monica Piscitelli

Bella, colta e vignaiola. E’ la signora Silvia Imparato, lady Montevetrano. Non un titolo glamour assegnato per l’indiscutibile fascino di questa icona della “Campania che va”, né tanto per quel tocco affascinante di distacco da cose e persone, che assume nell’estatica contemplazione della natura, o durante il racconto del suo amore per la terra e le sue persone. Ma per la decisione garbata con la quale la governa e ne raccoglie i frutti con duro lavoro; per la semplicità, e raffinatezza insieme, dei suoi modi accoglienti. Lei: agricoltrice dal badile d’argento e imprenditrice pronta a dar battaglia a colpi di carte bollate a San Cipriano Picentino, nel Cilento. In vigna, conservatrice – in contrattazione con gli uccelli che, in picchiata dal bosco esuberante che la circonda, le beccano qualche grappolo; e con i meli che infine ha dovuto, suo malgrado, rimuovere per far spazio al vino – pone sopra ogni cosa quello che qui gli elementi hanno stabilito per se stessi.
Incede con la grazia di una regina, sicura e orgogliosa di mostrare il suo lavoro e quello delle persone che la affiancano tra i suoi vigneti. Tra gli altri il cantiniere Mimmo e Riccardo Cotarella, qui, scienza mediata da antica amicizia. Con il Cabernet Sauvignon, il Merlot e l’Aglianico che costituiscono quel mix di fruttuosità, struttura, morbidezza e eleganza che si ritrova in bottiglia, Silvia Imparato ha ricamato un delizioso patchwork di 5 ettari e l’ha adagiato su queste colline dai pendii dolci a poco più di 100 metri sul livello del mare, utilizzando il filo della passione che l’anima. Un progetto creativo, a tratti naif, ma assolutamente vero, sviluppatosi nell’arco di quasi un ventennio che non ruba alla terra più di quello che concede. Nel 1991 inizia per gioco con degli  amici a produrre vino dai vigneti della tenuta nella quale trascorreva le vacanze da bambina. Nella campagna che l’ha vista, racconta, rotolarsi felice tra le spighe alte. Lei che, salernitana di nascita, trascorreva tra i collegi di mezza Europa gli anni della scuola. In visita all’azienda, ho il piacere di vederle queste piante di circa 40 anni, quelle dalle quali ha iniziato, alle quali si sono aggiunte le altre meno datate, per la gran parte concentrate nella zona esposta a sud sorvegliata dalla mole del castello di Montevetrano, dal quale prende il nome l’azienda. Intorno e in mezzo, un fantasioso giardino botanico  con querce, lecci, castagni, cespugli di more, fichi e ciliegi.
La vendemmia 2008 vedrà andare in produzione l’ultimo impianto: l’Aglianico Taurasi che prende il posto del vecchio Aglianico divenuto troppo poco produttivo.
Il cuore vitato dell’azienda non è che una parte dei 27 complessivi della proprietà sulla quale sorge la moderna cantina per la gestione del processo di raccolta, vinificazione, assemblaggio, affinamento e imbottigliamento del prodotto e la dimora settecentesca da copertina che con i suoi portici freschi offre riparo nelle infuocate giornate d’estate agli ospiti, molti dei quali amici, che tra un viaggio e l’altro della Imparato, tra fotografia e vino, le fanno visita più per il piacere dello stare insieme, che per una convenzionale visita in azienda. Il vino qui non si vende. Le 30.000 bottiglie che ogni anno l’azienda produce a fronte di una capacità produttiva di 40.0000, sono immediatamente assorbite dal mercato: Italia, Giappone, Spagna, principalmente. Ma il Montevetrano è richiesto ovunque. Per difenderlo dalle speculazioni del passato, dettate da un’insana mistificazione, la Imparato le affida a distributori di coscienza. Se possibile le segue una ad una nel loro viaggio verso la tavola o la cantina dei suoi acquirenti. Quella che degustiamo, beviamo, insieme durante la visita, in versione magnum, era, solo pochi giorni fa, fra il presidente Napolitano e il collega russo Dmitri Medvedev, come si raccontava in queste pagine : annata 2005. Per un vino da lungo invecchiamento come il Montevetrano, questo bicchiere è una promessa che ha il profumo della prugna matura, del mirto e della liquirizia dolce condite da un pizzico di pepe nero. Non si dimentica. In bocca il tannino è elegante e l’acidità giusta perché quella promessa non venga smentita. La 2004 è anche lui bambino dal sangue blu, più ritroso, presenta in maniera meno esuberante del primo, lo stesso naso con in più una nota di china che invita a ritornarci. Al momento più profondo e più soddisfacente in bocca, più pieno e godibile. Nessuna sorpresa per entrambi: non è un velocista questo Montevetrano, ma un maratoneta di talento, allenato da un’equipe che scrive pagine di storia della viticoltura campana e mondiale. E’ soprattutto affidabile. Un vino del quale far scorte a occhi chiusi e da dimenticare, se ci si riesce, in cantina o da aprire in una delle tante occasioni speciali della vita o per una verticale tra addetti al settore. Come quella che a Parigi, a novembre, anticipa Silvia Imparato, ne vedrà stappare una serie incredibile: dal 1991 in poi. Un omaggio della Francia al più francese dei vini campani.