Verona 2009, la degustazione di Gaja evento clou


Angelo con la figlia Gaia e Jancis Robinson

Gaia&Rey 1994 – Darmagi 1997- Conteisa 1996- Sperss 1989- Sorì San Lorenzo 1988- Barbaresco 1964
E’ stato l’evento più importante di un Vinitaly ben organizzato ma in cui sembra siano mancate soprattutto le idee nuove, quasi l’impossibilità di costruire qualcosa di comunicativo che non siano i percorsi trionfalistici e un po’ falsi degli anni ’90 o, di converso, il rifiuto globale della manifestazione. C’è da parte dei produttori ma soprattutto degli uffici stampa, una difficoltà a reggere il passo con i cambiamenti e l’impressione generale è avvolta da una sensazione di smarrimento, di mancanza di stimoli mentali davvero significativi, almeno dal punto di vista giornalistico. Il vino italiano è buono, gli investimenti continuano, c’è tanta voglia di fare, ma il navigatore collettivo non ha individuato ancora il nuovo percorso, è in attesa della ricerca dei satelliti.
In questo quadro la degustazione di Gaja, che apre la celebrazione dei 150 anni dell’azienda giunta alla quinta generazione è una granitica certezza, come entrare in una basilica romana: quante cantine italiane potrebbero organizzare un evento per 300 persone con un vino del 1964? Penso nessuna. E in Francia? Non molte. Questo segno di forza è stato per me impressionante, soprattutto quando penso che il 99% delle aziende meridionali che hanno iniziato la propria attività all’inizio degli anni ’90 non hanno avuto la dabbenaggine di conservare una sola bottiglia della loro prima annata! Così, tanto per farla vedere ai nipotini un giorno.

Voglio spendere una parola per la conduzione di Jancis Robinson: idealtipo anglosassone che sembra uscita da un romanzo di Agatha Christie. Semplicemente perfetta, nessuna esibizione tecnica, con interventi di supporto quando il tono musicale della degustazione scendeva, ha avuto un ruolo etereo e maieutico, capace cioé con cinque o sei domande poste al momento giusto di far venir fuori completamente la filosofia aziendale e il carattere dei protagonisti di questa straordinaria manifestazione senza occupare mai la scena. Il carattere forte e determinato di Angelo, il ruolo chiave della moglie Lucia, l’affiancamento al padre della figlia Gaia, l’ingresso, avvenuto appena a febbraio, dell’altra figlia Rossana che ha studiato enologia, la presentazione del giovane Giovanni, appena 16 anni, che porta il nome del papà di Angelo (a lungo sindaco di Barbaresco). Per me un vero proprio stage formativo a cui cercherò di uniformarmi da subito.

Robinson: “I vini italiani non sono segnati dalla dolcezza e dalla morbidezza, hanno un approccio più acido e devono essere spesso accompagnati al cibo. E’ un punto di forza o di debolezza?”
Angelo: “Non è un punto di debolezza. A me non interessano i vini perfetti, ma quelli che sanno esprimere un grande identità. Certo è stato più facile farli capire in Germania, ma poi sono stati apprezzati in tutto il mondo”.
Gaia: “La nostra tradizione esprime sicuramente l’acidità come uno degli elementi di fondo e crea vini originali. Ma bisogna anche pensare che se l’originalità non piace a nessuno impone qualche cambiamento. Al tempo stesso se un prodotto la perde del tutto diventa uguale agli altri. Bisogna dunque cercare un punto di equilibrio”.
Angelo: “La nostra modernità è costituita dall’introduzione delle barrique e dalla fermentazione a temperatura controllata, questi sono i due elementi che ci differenziano dal passato”.
Lo Chardonnay Gaia&Rey 1994 mi ha conquistato per la freschezza e il tono giovanile, la risposta del Nord ad un altro grande Chardonnay, il siciliano Tasca d’Almerita, la risposta del Sud allo Chablis. Integro, colore oro brilante, intenso e persistente, ricco, strutturato, sontuoso, l’ho usato per chiudere la degustazione rinfrancato dalla vibrante freschezza. La sua prima edizione è nel 1979. Un po’ chiuso e monocorde invece il Darmagi 1997, prima annata veramente calda, la vigna piantata nel 1978, da uve cabernet sauvignon capace sicuramente di esprimere aria tartufata di Langa, fresco, ma anche il meno esaltante di questa straordinaria batteria.
Robinson: “La crisi cambierà la vostra politica dei prezzi?” Angelo: “So bene che sono considerato uno dei responsabili dei prezzi alti del vino italiano. Ma quando si fa artigianato vero non si può inseguire l’industria. Noi pensiamo sia bello rimanere artigiani, siamo da sempre sullo stesso numero di bottiglie, circa 150.000. Abbiamo le risorse per accettare anche di non vendere fino a quando il peggio sarà passato. Ma io sono ottimista e credo che la gente vorrà sempre bere bene e che la ripresa verrà presto”
Conteisa 1996 e Sperss 1989, rispettivamente La Morra e Serralunga, esprimono un momento particolare dell’azienda, quando Gaja riprese a fare Barolo, che già aveva fatto il padre Giovanni, ma stavolta con uve proprie. Conteisa vede la luce nel 1995, dunque è recente, Sperss nel 1988. Entrambi in perfetta forma, inutile dirlo, il primo con un tono più moderno (cioccolato, note balsamiche, concentrato) il secondo più vocato ai toni fini dell’eleganza a cui è vocato il terroir di Serralunga.
Robinson: “In tutti questi anni, com’è cambiato il vino italiano?“. Angelo: “Beh, sul mercato internazionale eravamo un po’ folcloristici, ricordate le bottiglie di anfora del Verdicchio o i fiaschi con la paglia? L’immagine è stata completamente rovesciata, adesso l’Italia esprime una base produttiva molto ampia: quando ho iniziato nel 1961 in azienda c’erano 3000 produttori, adesso sono 35.000. Questo è buono perché rende possibile una grande e articolata diversificazione dell’offerta. C’è poi l’arrivo in campagna di tanti imprenditori di altri settori, anche questo è un dato molto positivo perché aiuta ad avere una percezione diversa, più qualificata della viticoltura”.
Il momento clou della degustazione è stato il Sorì San Lorenzo 1988 e il Barbaresco 1964, ossia i vini del giardino di casa. Ero di fianco al palato piemontese e allenato dai vini di Francia di Enzo Vizzari, il suo commento è stato: “Ecco cosa è un Barbaresco”. Integrità, finezza, eleganza. Nel Sorì torna la dolcezza dell’uva regalata dal tempo e non da pratiche di cantina, un po’ come gli anziani tornano bambini, il 1964, fatto ancora dal padre Giovanni perché Angelo i primi sette anni è stato in vigna e non in cantina, ha ancora gioventù da esprimere, l’acidità in perfetto equilibrio con le altre componenti del bicchiere, al naso indimenticabili note tartufate e di funghi. Persino la Robinson entra nel merito per una sola volta durante la degustazione con un semplice ma sentito aggettivo: “Excellent”.

Sul palco la famiglia, l’immagine della vera forza dell’Italia. Una famiglia dai vincoli tradizionali con una gerarchia pre-definita dei ruoli, ma assolutamente moderna nella distribuzione delle funzioni in una degustazione dove tutti hanno parlato esclusivamente in inglese. In prima fila gli amici di sempre: Edward Steinberg con la moglie e Guido Rivella con il quale il sodalizio dura da 39 anni. E se Gaia ha ricordato le più importanti donne del vino, Angelo ha mostrato le foto degli autori della rinascita del vino italiano, a cominciare da Domenico Clerico presente in sala a cui è stata tributata una standing ovation, ai langaioli più famosi (Altare, Bologna), dai toscani ai franciacortini, da Gravner sino a Piero Mastroberardino. Una conclusione politica se volete: queste sono le persone che hanno cambiato la vigna in Italia.
I vini erano buoni, gli ultimi due straordinari, a me è piaciuta l’esecuzione della presentazione dalla musicalità perfetta, poco italiana se volete, in cui nessuno ha debordato dal ruolo e tutto si è svolto in perfetto stile piemontese, denso e preciso. Entrati alle 10,30, alle 12 era già tutto finito. Anche il Vinitaly.