Fabio Rizzari, l’arte della degustazione


“Alcuni bevono qualche centinaio di etichette e pensano di essere esperti criticando. Il vino, anche semplice, spiazza sempre, non bisogna cercarne i difetti ma i pregi”
“Oggi la difficoltà è distinguere tra un vino di qualità e un prodotto che imita il vino di qualità”
“Come Vizzari, a breve apriremo un blog con Ernesto Gentili”
“La forza del Sud sono le uve autoctone, la debolezza è l’incapacità di fare squadra”

Fabio Rizzari, torinese, classe 1960. Dal 2003 è curatore, insieme a Ernesto Gentili, della Guida Vini d’Italia pubblicata dall’Espresso, scrive per diverse testate specializzate, italiane e straniere. Quando abbiamo pensato ad un degustatore professionale da inserire in questa serie domenicale non abbiamo avuto l’imbarazzo della scelta: non solo Fabio è sicuramente uno dei migliori esperti in Italia, ma è anche profondo conoscitore della realtà meridionale. Ne apprezziamo l’approccio umanistico al vino e la fine ironia, l’equilibrio frutto della sua esperienza. Giornalista professionista, dopo studi di musicologia si è dedicato dalla fine degli anni ’80 ad approfondire i temi della degustazione e della critica enologica. Ha curato le prime edizioni dell’Annuario di Luca Maroni, collaborato con Luigi Veronelli Editore, e dal 1996 lavorato, come redattore ed editorialista, al Gambero Rosso Editore (Guida dei Vini d’Italia, Almanacco del bere bene, Gambero Rosso Channel). Ha curato libri-guida enogastronomici quali “Chianti e Chianti Classico”, “Siena e i suoi vini”, “La Maremma e la costa toscana”. È stato relatore Ais e membro del Grand Jury Européen.

Cominciamo dall’inizio. Qual è stato il tuo primo approccio al vino?
Sono stato astemio fino a 27 anni. Come molti, prima pensavo che il vino fosse un liquido acidissimo e amaro (e in molti casi all’epoca non dipendeva dal fatto di essere inesperto…). Poi un lento avvicinamento, con un paio di “illuminazioni” improvvise: il Chianti Classico 1986 del Castello di Ama, un vino semplice e molto equilibrato, e il Fixin di Bruno Clair del 1983.

Quando hai percepito la necessità di trasformare la passione in una professione?
È avvenuto in modo casuale, non pianificato. Tramite amici comuni ho conosciuto prima Luca Maroni (per il quale sono stato curatore delle prime edizioni dell’Annuario, qualche secolo fa) e poi Gino Veronelli. Ho cominciato a degustare, quindi a scribacchiare temerariamente sul tema, tra la fine degli anni ’80 e i primi anni ’90.

Gli inizi sono stati difficili davvero in questo settore. In che periodo hai capito che stavi facendo un mestiere di successo, cioé che la gente, non solo gli addetti ai lavori, ti ascoltava?
Credo che si possa parlare di un discreto apprezzamento del pubblico per la capacità di coordinare un lavoro corale, di dare giudizi equilibrati e onesti sui vini, più che per una mia particolare visione del vino. Penso che esistano due approcci professionali distinti nel campo della critica enologica, entrambi ovviamente legittimi: da un lato gli opinionisti, che hanno una loro concezione del vino e ne propongono un’interpretazione personale; penso a colleghi molto noti, che conosco e stimo da anni, come Alessandro Masnaghetti o Sandro Sangiorgi. Dall’altro, giornalisti specializzati come me che fanno un lavoro meno “solistico” e più “da fanteria”, lavorando in squadra.

Cosa significa per te saper degustare un vino?
Dopo una ventina d’anni di esperienza, ti dico senza alcuna civetteria che sono molto più consapevole oggi della difficoltà di “leggere” un vino di quanto non lo fossi all’inizio. Di solito i neofiti, dopo qualche centinaio di vini stappati, credono di avere gli strumenti critici per rubricare un vino sotto questa o quella categoria. E nella stragrande maggioranza dei casi hanno un approccio capovolto alla degustazione: cercano per prima cosa i difetti di un vino, perché elencare problemi quali “volatile alta”, “eccesso di tannini del legno”, “sovraestrazione”, così come stroncare impietosamente il Barolo x o il Chianti y, ti dà una patente provvisoria di esperto. Da Gino Veronelli tutti noi abbiamo imparato che “il buon critico, e il buon bevitore, prima cerca i pregi in un vino, e poi gli eventuali difetti”. Comunque, con la quantità inquietante di tecniche oggi a disposizione degli enologi, degustare un vino significa soprattutto distinguere un vino di qualità reale da un prodotto che “imita” un vino di qualità. Fino a qualche anno fa questo era un compito relativamente facile; ora richiede delle capacità analitiche molto più raffinate. In questo senso uso il termine un po’ enfatico di “degustazione trascendentale”: molti colleghi sono buoni assaggiatori, pochi sono ottimi degustatori, pochissimi si muovono su un piano trascendentale, quasi visionario nell’arte di comprendere un vino. Sarei felice, dopo tanti anni, di poter avvicinare i gradini più alti, ma a quel livello conosco solo Michel Bettane, Jacques Perrin, e forse altri due o tre. Ernesto Gentili, e non lo dico perché lavoriamo insieme da molto tempo, sta da quelle parti come acume degustativo e profondità di analisi.

Personalmente vedo in giro poco rispetto per chi lavora il vino, sempre e comunque. Voglio dire, anche se il vino è industriale sempre meglio chi investe in questo settore che, poniamo, nei piani regolatori che devastano i comuni. Quali sono i vini che ti piacciono?
Come professionista sai bene che devo distinguere tra assaggio tecnico e assaggio edonistico: posso non amare per niente sul piano del gusto personale una certa tipologia, ma se ci trovo un vino autentico, ben fatto, sono tenuto a valutarlo bene. In privato, da molti anni coltivo una passione monomaniacale per i Borgogna. E poi, tanto per non smentire il luogo comune che circola sulla bontà dei vini non sovraestratti, veri, di sviluppo naturale, etc etc, mi piacciono i rossi delle Langhe (non solo Barolo e Barbaresco, ma anche Pelaverga), i Sangiovese e gli Aglianico meno “monumentali”. Quanto ai vini del Nuovo Mondo, i bevitori che hanno una certa apertura mentale, e sono disposti a farsi stupire senza pregiudizi, fanno spesso scoperte molto interessanti. Ma tra gli appassionati aperti e curiosi da un lato, e i conservatori sospettosi dall’altro, io sto ahimé con questi ultimi: davanti a una bottiglia che nasce al di fuori delle “sacre” zone classiche del vecchio continente, parto sempre con un robusto pregiudizio snob.

Ma…tu bevi vino?
Un bicchiere a pranzo, ma non in estate, e una cinquantina di bicchieri la sera. Scherzo, ovviamente: non supero mai i 44, 45…

Cosa ti riesce a dare maggiore soddisfazione in questo lavoro?
Sono soddisfatto quando riusciamo a ridurre al minimo il numero di “sòle” (cioè di fregature, detto alla romana) che diamo al lettore valutando i vini che recensiamo nella nostra Guida. E proporzionalmente, quando il numero di segnalazioni affidabili è elevato.

Cosa ti fa arrabbiare di più?
Nei produttori, la furbizia nell’aggiustare i campioni cercando di farli apprezzare dai diversi giornalisti, e peggio ancora la malafede nell’impiegare con disinvoltura tecniche lecite e meno lecite per ingannare i consumatori. Nella stampa di settore, gli improvvisatori, quelli che hanno fiutato la moda del vino e si sono riciclati come “critici enologici” negli ultimi anni, e che non riuscendo a distinguere un Barbaresco da una Coca Cola emettono sentenze inappellabili. E tirano un’infinità di sòle.

All’inizio mi ricordo tanta allegria ed entusiasmo in questo settore. Come mai adesso l’ambiente dell’enogastronomia è diventato così litigioso, cupo perfino in certe sue manifestazioni?
Ho una mia teoria a riguardo. Alessandro Masnaghetti mi ha gentilmente consentito di esporla qualche mese fa nelle pagine della sua rivista Enogea. Te la ripropongo in qualche passaggio. Rispetto ad altri settori della critica, pur rissosi, nel mondo del vino c’è in più una speciale forma di risentimento preventivo dei lettori verso i critici, e dei critici verso i loro colleghi. Un sospetto pregiudiziale che sfocia di solito in odio aperto se non si condivide il giudizio su un vino o un’azienda. “Quel coglione di x ha scritto che il Masseto 2000 è un grande rosso, pensa che fesso”; “essendo un venduto psicopatico, y non ha premiato l’ultimo Barolo di Mascarello”, eccetera. Il perché mi sembra chiaro. Il giudizio di gusto espone più di altri al ridicolo potenziale, e rivela più di altri la nostra fragilità. Chi accetta di correre questo rischio ha un atteggiamento più rilassato e libero, non ostile verso gli altri. Il rischio di essere traditi dal proprio lato imbecille è sempre dietro l’angolo, e non conosco un singolo degustatore professionista che non abbia scritto qualche cazzata sparsa. Diverso è però il caso di non accetta di venire a patti con questo rischio. La paura di dare un giudizio sbagliato, cioè la paura del giudizio altrui, trasforma il critico in un osservatore rancoroso, sospettoso, malevolo verso lettori e colleghi. Lo trasforma nell’uomo che puntualizza. Il mondo del vino è pieno di uomini che puntualizzano, cercando non tanto di dimostrare la validità delle loro tesi – operazione certo legittima – quanto di screditare quelle altrui. Di qui la poderosa mole di interventi polemici presenti nelle pubblicazioni specializzate e nei siti internet, ricche di astiose confutazioni della critica concorrente e non di rado sprezzanti verso il lavoro di enologi e produttori.

Infatti: a leggere il tono di alcuni interventi sembra che molti grandi del vino hanno commesso più reati di Riina e Bagarella! Cosa è cambiato dai tuoi inizi ad oggi?
Più o meno tutto. Vent’anni fa in Italia si facevano poche centinaia di vini di alto livello, e il resto della produzione era un repertorio di incertezze enologiche. Gli addetti ai lavori della stampa erano una quindicina e gli appassionati di vino sette o otto di più. Oggi si fanno migliaia di vini di buona qualità, e scrivono di vino alcuni milioni di persone.

I blog, e più in generale la rete, sono un elemento positivo a prescindere o hanno, a tuo giudizio, dei punti critici? Se sì, quali?
Questo è un punto decisivo, da molti anni Ernesto e io ci interroghiamo sull’opportunità di aprire uno spazio su internet. Ora ci siamo convinti a farlo, e nel giro di qualche giorno andremo in rete con un nostro blog, in contemporanea con quello del nostro direttore Enzo Vizzari. Il mio giudizio è disarmante nella sua banalità: un blog è come un telefono, o una barrique, per restare in tema. È un semplice strumento, che può essere usato in modo costruttivo o distorto. Nella migliore delle ipotesi la sua efficacia è evidente, perché consente di divulgare punti di vista originali svincolandosi dalla pachidermica lentezza della carta stampata. Nella peggiore, manca della cornice formale che consente una reale comunicazione: non dico niente di nuovo ricordando che i confini della forma, lontano dall’essere una limitazione alla propria libertà di espressione, ne sono anzi condizione fondativa. Uno spazio aperto a tutti è solo in apparenza libero. Nei fatti, senza la cosiddetta premoderazione, fare un blog è più o meno come scrivere un messaggio sui muri della stazione per poi trovarci sotto qualche disegnino osceno o dei commenti del tutto fuori luogo.

Vecchio hegeliano, forma e sostanza coincidono. Ne sono profondamente convinto, a volte vedo come persino l’uso dell’italiano diventi una variabile soggettiva. Insomma: c’è ancora molto dilettantismo in giro?
Sì, ma paradossalmente a parti inverse: un tempo gli addetti ai lavori avevano una certa competenza di base, e i consumatori non erano molto preparati. Oggi ci sono molti dilettanti allo sbaraglio nel campo della critica, mentre il livello medio degli appassionati è cresciuto moltissimo. Basta leggere qualche forum in rete per accorgersene. E quindi di fesserie puoi scriverne sempre meno.

Tu conosci a menadito la Francia. Puoi fare un quadro di paragone con l’Italia? Ossia, secondo te, in questi anni è aumentato o meno il divario e davvero il vino italiano è diventato così importante come ci diciamo in continuazione?
A menadito non direi… Ho sempre pensato che ci fosse molta autocelebrazione mediatica nell’esaltazione dei nostri prodotti. Allo stesso tempo vedo con sospetto i “francofili” per partito preso. Ne ho discusso varie volte con il vecchio Gino, senza avere ovviamente la sua esperienza né la sua genialità interpretativa. Lui pensava che fossimo di gran lunga migliori noi, che “abbiamo uve d’oro”, rispetto a loro. Per quanto posso valutare io, nel campo dei vini rossi da molti anni abbiamo colmato il divario enotecnico con i francesi, e possiamo far valere una oggettiva originalità ampelografica. Le gerarchie non hanno molto senso, visto che un Aglianico del Vulture non ha niente a che vedere con un rosso del Rodano, ma il livello qualitativo dei nostri rossi di vertice è pienamente paragonabile ai loro, se non superiore. Nel settore dei bianchi, a costo di passare per traditore della patria, devo dire che c’è ancora strada da fare per potersi confrontare con i migliori prodotti non solo francesi, ma anche tedeschi.

Quale è stato il ruolo del Sud nella rinascita del vino italiano?
Un ruolo di particolare importanza, anche se ricco di elementi contraddittori. La svolta è venuta quando i migliori produttori hanno smesso di oscillare tra due estremi, cioè la convinzione presuntuosa di fare il miglior vino del mondo da una parte e un nemmeno troppo sotterraneo complesso di inferiorità nei confronti dei vini toscani, piemontesi o friulani dall’altra. Con l’adozione di tecniche di cantina più precise ora molti sanno di poter competere ad armi pari (anzi, con un’arma formidabile in più, rappresentata dalla ricchezza di vitigni locali) con il meglio della produzione nazionale e internazionale.

Quali, nel Sud, i punti di forza e quali di criticità?
Come ti dicevo, è di sicuro un punto di forza notevole avere a disposizione un grande bacino di uve tradizionali, e in più tecniche di allevamento della vite e di vinificazione in vari casi originali e non omologate. Non sono un agronomo e non mi permetto quindi di tagliare giudizi sulla miriade di differenti situazioni colturali del nostro Sud. Ho comunque la convinzione che un clima in generale più caldo e più soleggiato non sia necessariamente un vantaggio; almeno per le vigne nuove. Il caso di varietà presenti da decenni o addirittura da secoli in un’area specifica mi pare diverso: le capacità plastiche di adattamento della vite sono spesso sorprendenti. Qualche giorno fa ho bevuto un rosso greco le cui uve pare nascano in una sorta di fornace, senza alcuna escursione termica: 40 gradi di giorno, 38 di notte. Bene, contro ogni attesa il vino era di grande freschezza, senza alcun lato pesante, molle o troppo surmaturo. Ma quella varietà è coltivata lì da molto tempo, un po’ come da noi accade ad esempio con i migliori Cannonau sardi. Sul piano della produzione, poi, le iniziative corali, lo scambio di informazioni, insomma le cosiddette “sinergie” tra case vinicole, mi sembrano ancora più scarse e frammentate nelle nostre regioni meridionali che nel resto d’Italia.

Che differenza c’è nel lavoro fra Gambero e Espresso?
Sono stato quasi dieci anni al Gambero e ne conservo un ottimo ricordo. Alcuni dei miei migliori amici, prima ancora che colleghi, lavorano al Gambero, e sarò sempre grato a Daniele Cernilli e Stefano Bonilli per quanto ho imparato lavorando con loro. La differenza principale con il mio incarico attuale è che la nostra squadra è molto più contenuta rispetto all’ampiezza della struttura gamberesca. Ma credo che la qualità del lavoro non ne risenta per niente. L’Espresso ci mette d’altra parte nelle condizioni ideali per poter lavorare al meglio.

Ti manca la televisione?
A dirti la verità, per niente. Registrare con produttori e colleghi era di solito molto divertente, ma a prezzo di un certo stress da prestazione che sono contento di non dover provare più.

Riesci davvero ad essere amico con alcuni produttori?
Credo di essere in Italia il giornalista specializzato che frequenta meno i produttori. Comunque, se si tengono distinti i ruoli e le responsabilità, non vedo alcun problema deontologico serio nell’avere molti amici tra vignaioli e titolari di aziende. Ma non sempre si assiste a rapporti del tutto trasparenti tra le due categorie, purtroppo.

Qual è il confine tra amicizia e rapporto corretto fra il critico e il produttore?
È un confine netto: dando per scontata la condanna delle aberrazioni più gravi (corruzione, cointeressenze economiche), bisogna mantenere la necessaria distanza critica sia nel caso di amici che fanno vini diciamo poco brillanti, sia nel caso di produttori con i quali magari c’è stata qualche incomprensione, ma che firmano vini di qualità sorprendente.

Cosa non deve fare mai un critico?
Tradire la fiducia dei lettori. Retorico, ma vero.

Come passi il tuo tempo libero?
Per fortuna, riesco ancora a vivere il vino non solo come oggetto di lavoro, ma come piacere quotidiano e fonte di conoscenza. Quindi, molte cene con gli amici e stappature assortite. Poi, molta musica. Suono da trent’anni il clavicembalo, anche se dire “suono” è un’iperbole.

Quali sono le tue letture al momento?
Ho sempre quattro o cinque libri a differenti stadi di lettura, non per chissà quale capacità ma per pigrizia e incostanza. Al momento, “Il ghiottone errante” di Paolo Monelli, una vischiosa biografia di Kubrick di tale Lo Brutto (non riesco a liberarmene una volta per tutte), “L’inconveniente di essere nati” di Cioran.

E le visioni e gli ascolti?
Con il cinema ho un legame squilibrato, bulimico, vedo molti film ogni settimana. In genere, pellicole degli anni Cinquanta, sul canale satellitare Classic. Numi tutelari, Totò, la Magnani, De Sica. Tra gli autori attuali, nutro una simpatia acritica e viscerale per Tim Burton e Ang Lee. Nella musica, il repertorio che va dalle palafitte a Mozart, con brevi incursioni otto e novecentesche. Ma soprattutto, mania unica e totalizzante fin da piccolo, Bach, del quale accumulo monografie, biografie storiche e naturalmente registrazioni. Per Bach sono di un fanatismo preoccupante.

Quali i sogni nel tuo cassetto?
Poter usare come cantina una cripta medievale con volte a crociera, dove esercitare un sano – anzi nemmeno troppo sano – culto dell’harem. Con bottiglie rare e rarissime, di annate fino al 1410.

Cosa diresti ad un giovane che vuole fare il tuo lavoro?
Di non sforzarsi a memorizzare nomi, etichette, vigneti, annate, ma di degustare il più possibile. Di non dare nulla per scontato, perché il vino spiazza sempre, anche quello apparentemente più semplice. Infine, ma è la prima cosa, di avere buoni maestri: non tacchini presuntuosi che hanno la verità in tasca, ma gente vera, capace di emozionarsi e di trasmettere emozioni.