Totò, Eduardo e Pasta e Fagioli. Da cinquant’anni al Corso Vittorio Emanuele, la strada più lunga di Napoli


Mario Bianchini, l’oste

Corso Vittorio Emanuele 514
Tel.081.564 26 23
Chiusura: lunedì
Aperto a pranzo e cena
Carte di credito, bancomat, buoni pasto: si

Ferie:10 giorni in agosto

Il Corso Vittorio Emanuele, nasce tra il 1853 e il 1860 col nome di Corso Maria Teresa e la sua realizzazione si deve alla volontà di Ferdinando II che ne commissionò il progetto all’architetto ed urbanista Errico Alvino, con l’intento di poter avere un asse viario che mettesse in diretto collegamento due parti della città poste agli antipodi e, soprattutto, la città bassa col quartiere del Vomero. La strada si snoda per 4.5 chilometri, dall’attuale piazza Mazzini sino a via Piedigrotta, lambendo la collina del Vomero con un andamento sinuoso e per larghi tratti panoramico.

il Corso Vittorio Emanuele oggi sul marciapiede sinistro c’è l’osteria

L’apertura di questa strada, in un’epoca in cui le colline erano ancora territori incontaminati, coltivati ad orti e vigne, mirava a dotare Napoli di una sorta di primitiva “tangenziale”, che agevolasse gli spostamenti da una parte all’altra della città. Eleganti edifici, soprattutto sul versante occidentale, belle affacciate sul golfo, gli attraversamenti delle antiche salite per il Vomero e la presenza del singolare Castello Aselmeyer sono le principali caratteristiche del corso Vittorio Emanuele. Numerosi anche i collegamenti con il trasporto su ferro: lungo la strada si trovano tre stazioni intermedie delle funicolari ed una fermata della ferrovia Cumana.

la fermata della funicolare del Corso Vittorio Emanuele com’èra

Il Castello Aselmeyer, o più correttamente, Castello Grifeo dei principi di Partanna, è una residenza ubicata in Corso Vittorio Emanuele, eretta dall’architetto anglo-napoletano Lamont Young nel 1902 come dimora personale e due anni dopo venduto al banchiere Carlo Aselmeyer.

Il Castello Grifeo dei principi di Partanna

Napoli è cresciuta sul tufo giallo, sulla pozzolana e sulle rocce generate dalle antiche eruzioni del vulcanismo dei Campi Flegrei, ha quindi  sempre sfruttato la pietra dei suoi colli e del fondo delle sue valli per crescere verso l’alto, avendo perciò bisogno di essere collegata da sistemi di scale, calate, salite e discese.  A pochi passi da Piazza Mazzini, scendendo per meno di un chilometro per Via Salvator Rosa e svoltando a destra in Via Francesco Saverio Correra, vi troverete nel mezzo di quella strada che tutti i napoletani conoscono con il nome storico di “Cavone”,

Si tratta di una strada poco più larga di un vicolo che da Piazza Mazzini conduce dopo circa 600 mt a Piazza Dante. E’ una discesa sommersa tra 80 palazzi e 200 “bassi”, più di 500 famiglie e 2000 residenti con storie di vita della Napoli di una volta che risalgono all’immediato dopoguerra e che ho raccolto per testimonianza diretta: “la parte verso piazza Dante era ricca di botteghe di frutta e ortaggi e piccole salumerie. Sulla sinistra c’era una piccola rivendita con la bancarella esposta sul vicolo dove una bellissima e formosa signora metteva in mostra svariate ceste di uova il cui prezzo variava a seconda della grandezza e freschezza. ( chissà se un certo allevatore in Versilia fa lo stesso…) Sempre sulla sinistra, poco più avanti, c’era la scuola elementare, al mattino si vedevano i bambini con i loro grembiulini candidi e fiocchi azzurri correre fino all’ingresso, le mamme facevano a gara per chi avesse il grembiulino più pulito e meglio stirato, al ritorno poi, quante macchie (la penna biro ancora non era stata inventata). Molti abitanti del “Cavone” ospitavano studenti universitari e si poteva osservarli intenti a studiare sui terrazzini o sui balconcini al tiepido sole invernale. Nel pomeriggio poi, i bambini giocavano per strada, il vicolo rappresentava il prolungamento naturale del basso, era ovvio perciò che molte attività del quotidiano si svolgessero all’aperto, come ad esempio pulire la verdura, cucire, stendere il bucato. Durante lo svolgimento di queste incombenze, il chiacchiericcio era costante: il buongiorno e la buonasera erano la regola se passava un estraneo al vicolo.  Poi c’erano le conversazioni da balcone a balcone e il mitico “panaro” (paniere) che trasportava con un sistema di carrucola oggetti di ogni necessità da balcone a balcone”. Il “Cavone”, in effetti, altro non era che un impluvio, il letto collinare dell’antico Sebeto, nel quale le acque avevano scavato un canyon nel banco tufaceo mettendo il tufo a vista e favorendo un’intensa estrazione. Scomparso il Sebeto, il suo letto diventò una strada lungo la quale s’insediarono numerosi “fondaci”, nei quali i mercanti depositavano le mercanzie che esponevano in Piazza Mercatello, all’epoca fuori dalle mura, oggi Piazza Dante. Con l’espandersi della città anche il Cavone fu urbanizzato e persino i suoi fondaci, dove ancora oggi su alcune lapidi si legge: “basso non utilizzabile come abitazione”, diventarono abitazioni. “Il Cavone era il mercato del quartiere, tra Piazza Dante e il Museo c’era una drogheria che vendeva di tutto: sapone di piazza di color marrone gommoso conservato nei barili, legumi, dolciumi per bambini, pasta sfusa tenuta nei cassetti con la carta blu dei maccheroni, conserve di pomodoro a peso. Queste attività, come “‘o ferraro” (il fabbro), “‘o baccalaiuolo”, e “l’acquafrescaio” che vendeva limonate e acqua ferrata al Museo”

l’ acquafrescaio

oggi non ci sono più. Rimangono gli antichi palazzi nobiliari abitati dalle famiglie borghesi e i “bassi” del popolo in una commistione normale per quei tempi, dove, sotto le bombe non c’èra differenza, il ricovero era uno solo. Lungo il Cavone resta la cappella Ulloa, una delle chiese monumentali di Napoli, sita nel centro storico della città, in piazzetta Cappelluccia.

la Cappella Ulloa

Alcuni dei palazzi nobiliari sono stati restaurati e riconvertiti in originali hotel tra cui l’Hotel Correra 241, il primo Art Hotel di Napoli, addossato ad un banco di tufo da cui parte un antico acquedotto greco-romano. Risalendo verso il Corso, proprio all’angolo, prima della discesa di Salvator Rosa e del Cavone, in direzione Piazza Mazzini, al n. 514 c’è l’Osteria Toto’, Eduardo…e pasta e fagioli. Una volta, mi racconta il proprietario Mario Bianchini, napoletano con lontane origini toscane, questa posizione era ideale, grazie alle scale di Napoli, antichi percorsi pedonali che congiungono le colline con il centro e la costa. Il Corso Vittorio Emanuele con le sue calate, discese, salite e pedamentine ne è una salda testimonianza. Il Petraio è una zona di Napoli

il Petraio,la zona popolare

che prende il nome dell’omonimo borgo (Salita del Petraio, Gradini del Petraio, Vico del Petraio, Discesa del Petraio ) sulla collina del Vomero. Il termine Petraio non deriva dal nome di una cava di pietre, ma da un luogo dove le piogge alluvionali depositano i ciottoli; il tracciato della salita ricalca quello di uno dei tanti alvei alluvionali del Vomero, dove successivamente venne realizzato un borgo che con il passare degli anni è diventato un luogo per famiglie benestanti. Oggi nel quartiere sono presenti architetture di Liberty napoletano realizzate nei primi anni del XX secolo e successivamente, durante la speculazione, sono stati costruiti numerosi palazzi in calcestruzzo armato che l’hanno resa una zona con alta densità residenziale.

il Petraio, le costruzioni residenziali

La Pedamentina di San Martino parte dall’omonimo largo sulla sommità del Vomero, una lunga via gradinata che, con 414 gradoni, permette di scendere fino alla città bassa, ricongiungendosi con Corso Vittorio Emanuele. E’ con ogni probabilità il più antico percorso di accesso al Vomero (esisteva già a metà Cinquecento), utilizzato in passato per raggiungere il Castel S.Elmo, e per questo dotato di sistemi di difesa contro gli assalti nemici. Lungo il percorso, si incontrano vecchie abitazioni, notevoli viste sul panorama del centro storico, e si costeggiano i giardini e le vigne della Certosa di San Martino da ieri 16 dicembre, monumento nazionale.

la vigna di San Martino – Monumento nazionale

Dalla magnifica terrazza dell’Osteria di Mario Bianchini si vedono le Scale di Sant’Antonio ai Monti e l’Olivella che conduce alla zona della Pignasecca. Il nome originario dell’osteria doveva essere “ Totò, Peppino e pasta e fagioli”,

Eduardo de Filippo e Toto’ il Principe Antonio de Curtis

poi, per un disguido burocratico Peppino è stato sostituito dall’altrettanto mitico Eduardo. L’importante è che non sia stato sostituito Totò, il Principe de Curtis, perché la moglie di Mario, Rosaria De Curtis è parente del principe napoletano per antonomasia, nato nel Rione Sanità. Il locale, oggi si trova nel caos del Corso Vittorio Emanuele, sommerso da mille attività, traffico, motorini, la vicina facoltà universitaria del Suor Orsola Benincasa,

L’istituto universitario del Suor Orsola Benincasa

lo svincolo che porta alla tangenziale e le difficoltà di trovare parcheggio. Mario non si arrende, sul marciapiede di fronte l’osteria ci sono una serie di garages di amici sempre pronti ad ospitare le auto dei clienti. Un po’ di anni fa – mi racconta Mario – non c’èrano garages ma piccole botteghe, tappezzieri, un barbiere e qualche basso, ora è tutto sparito, annullato, nel bene e nel male,  dall’invasione della modernità.

i bassi di una volta

Totò, Eduardo e pasta e fagioli non è sempre stata un’osteria, negli anni precedenti al dopoguerra era una semplice mescita di vino

da mescita a osteria

e tale è rimasta fino alla fine degli anni ’70, quando Mario, cuoco autodidatta, allievo di mamma Anna, lo rileva per farne una semplice osteria con i piatti della tradizione napoletana. La storia di Mario è simile a quella di molti della sua generazione: ultimo di sei figli, poca voglia di studiare, comincia con lavoretti vari e a 12 anni entra in cucina dalla Pizzeria Gorizia, dove oltre a fare il “ragazzo” , comincia rubare il mestiere allo chef. Una volta cresciuto trova un posto come capo cuoco alla mensa dell’Alfa Sud di Pomigliano d’Arco, un malore lo costringe a lasciare la fabbrica, qualche esperienza al Nord, poi il rientro a Napoli, in cucina da Ettore in Via Gennaro Serra e da Amici Miei. Da circa trent’anni, Mario Bianchini, con l’aiuto saltuario dei due figli Gaetano e Francesco e della moglie Rosaria quando non è impegnata nell’altro locale storico di famiglia, l’Alimentari – tavola calda De Curtis in via Alabardieri, abita praticamente nella cucina dell’osteria, aperta a pranzo e cena. La cucina è davvero quella di casa, non solo per la classicità dei piatti proposti, ma per i sapori identici a quelli domestici. Il menù non è particolarmente ricco in termini di numero di piatti proposti, ma la genuinità dei sapori è emozionante e fortemente evocativa. I prodotti usati in cucina sono eccellenti, la cordialità e la semplicità altrettanto, un paio di episodi mi fanno capire tanto del modo di essere di Mario: un lunedì – giorno di chiusura – fuochi spenti, capita una coppia di turisti, non sanno dove andare, Mario accende i fornelli e non chiede il conto; un gruppo di  studenti finisce il pranzo, i ragazzi si rendono conto di non avere soldi a sufficienza, anche qui Mario non batte ciglio, niente conto. Veniamo ai piatti, il fiore all’occhiello dell’osteria è la pasta e patate con la provola, ora, si fa presto a dire pasta e patate, ma, vi assicuro ( con cognizione di causa) ho assaggiato la migliore pasta e patate con provola, come non la mangiavo da anni: non mancava nulla, il sapore di sottofondo del battuto di verdure e aromi soffritti, la cremosità delle patate, parte intere e parte frullate, la “mescafrancesca” perfettamente al dente, provola perfettamente fusa e senza poltiglie, misto di parmigiano e pecorino romano grattugiato e un tocco di piccante, a Napoli diremmo, “‘a uerra”.

pasta e patate con la provola, un capolavoro

Ancora una minestra, pasta e ceci, ritorna la memoria di casa, il modo di cucinare di mia madre, i ceci parte interi e parte in crema, di nuovo pasta mista, spruzzatina di prezzemolo e piccante a piacere.

> pasta e ceci

Poi un classico napoletano “‘ O Scarpariello”, per 2 persone: 250 gr. di maccheroncelli o penne;600 gr. di pomodorini freschi per il sugo; 50 gr di strutto o grasso del prosciutto;50 gr. parmigiano grattugiato; 30 gr. pecorino romano; 4 cucchiai di olio extravergine di oliva; 1/2 spicchio d’aglio; peperoncino a piacere o olio piccante ( alla fine il sugo deve essere piccante!); basilico e prezzemolo. La “zuppetta” o “scarpetta” con il pane che Mario fa arrivare da Frattamaggiore è obbligatoria.

‘O Scarpariello

Dalla cucina arriva un insistente profumo di cipolla: “ è la genovese, – mi dice Mario – l’ho messa a fare ieri sera, sta finendo di imbrunire.” Uno spettacolo con il pezzo di gallinella morbido come il burro. Ad ora di pranzo l’osteria non è molto piena, questa non è una zona di uffici, gli studenti della vicina università si accontentano della mensa, ecco perchè Mario prepara soltanto primi piatti. naturalmente i secondi espresso sono sempre disponibili.

la genovese, con la cipolla bruna al punto giusto

La sera è una festa, il locale è sempre pieno, meglio prenotare. Si comincia dagli antipasti: la  frittura napoletana, i crocchè di patate e gli arancini veri, provola, prosciutto cotto, pepe e prezzemolo per i crocchè, carne macinata, mozzarella, sugo, piselli e prosciutto per gli arancini. Le montanare, deliziose, bollenti pizzelle fritte condite con sugo di pomodoro, basilico e parmigiano, le paste cresciute e i piccoli ripieni di ricotta e prosciutto, o, scarola e il “pignatiello” di fagioli.

il “pignatiello” di fagioli

Ancora la frittura di “fravaglia”, freschissima presa al mercato in Pignasecca, citando il mitico Lellobrak: “i giovani pesci di una determinata specie (fravaglia ‘e treglia, fravaglie di sarde, d’alici ) e più genericamente l’insieme di novellame (escluso il novellame appena nato: i cosiddetti bianchetti che in napoletano son detti cicenielli) di specie diverse messe in vendita mescolato ed adatto soprattutto alla frittura. Cominciamo a dire che la voce napoletana fravaglia ( che – contrariamente a quanto ritenuto dai piú – io non reputo sia da collegarsi al verbo lat. frangere= spezzare giacché (per quanto si faccia) sia morfologicamente che semanticamente non si riesce a trovar nessi soddisfacenti. Mi pare invece più perseguibile sia per la morfologia, che per la semantica, la strada di un sia pure non attestato neutro plurale *fragalia da un sing. *fragalium = cose odorose intese poi femminili, derivato dal lat. fragare= essere odoroso ); dicevo dunque che la voce napoletana fravaglia è pervenuta con i medesimi significati del napoletano nella lingua nazionale dove però è fragaglia.”.

Gli antipasti proseguono con verdure alla griglia, polipetti alla “luciana”, polpi cotti in casseruola, tradizionalmente di terracotta, insieme a pomodoro, aglio, ulive di Gaeta e capperi.

polipetti alla luciana

Si condisce con pepe e, a fine cottura, si completa con prezzemolo tritato. Non va aggiunta acqua durante la cottura. Un proverbio napoletano, recita, infatti: “‘O purpo se coce int’ all’acqua soja”, il polpo si cuoce nella sua acqua:). Fanno parte degli antipasti alcuni must della cucina napoletana a base di verdure, si tratta tuttavia, di preparazioni talmente ricche e saporite da poter sostituire un intero pasto, stiamo parlando della parmigiana di melanzane, dei peperoni imbottiti e delle zucchine o melanzane a “scarpone”. Durante il periodo migliore dei pomodori di Sorrento, fine primavera – inizio estate, Mario li prepara farciti con il riso alla marinara, o in versione campagnola con riso, carne macinata, mozzarella e piselli.

i pomodori di Sorrento

Tra i primi piatti, oltre a quelli citati sopra, ci sono naturalmente il ragù con la sua carne, gli gnocchi alla sorrentina, i paccheri alla “mammà”, altro piatto forte dell’osteria con ragù, ricotta e mozzarella, la pasta e fagioli, i primi di mare a seconda del mercato e della stagione: spaghetti a vongole, cozze, paccheri con la pescatrice. Tra i secondi la carne la fa da padrone, tutti i pezzi del ragù: tracchie, cotica, salsiccia, polpetta, gallinella. Ancora carne alla brace, agnello, costolette di maiale, scaloppine al vino, o al limone. Sul lato mare c’è un solo pezzo forte, i clienti lo prenotano e arrivano da ogni parte per mangiarlo: il baccalà alla luciana.

La mozzarella, che può rientrare tra gli antipasti o i secondi, arriva dall’agro aversano. I contorni sono rigorosamente tradizionali: friarielli, peperoni al grattè, melanzane a funghetti e tante insalate.

la mozzarella aversana

I dolci della tradizione napoletana, pastiera, torta caprese, tiramisù e ricotta e pera sono fatti in casa, qualche puntata sui dessert siciliani arriva dalla famosa pasticceria in Corso Vittorio Emanuele, Sapori di Sicilia, altro locale con cinquant’anni di storia. Degno della miglior tradizione napoletana il caffè. A scelta ed offerto dalla casa limoncello e amari di vario tipo. La cuenta? Per un pasto completo non si superano i 15 – 18 euro, se si sceglie il baccalà si arriva a 20, incluso il vino della casa, piedirosso o falanghina dei Campi Flegrei. Baccalà, un’insalata e un bicchiere di vino, 10 euro.

una delle salette

Il locale si compone di due deliziose salette in legno, circa 50 coperti e poi c’è il bellissimo terrazzo con vista sul golfo e sul Vesuvio dove durante la bella stagione possono sedere anche 80 persone.  L’atmosfera è davvero casalinga, d’inverno con il freddo si tira un sospiro di sollievo per il calore che Mario dimostra a tutti i suoi clienti e per i magnifici piatti caldi pronti in pochi minuti. D’estate ci si “arricrea” (consola) per il fresco della terrazza, per l’allegria di Mario e, tutto sommato, per il panorama di una Napoli, che, nonostante tutto, è sempre tra le più belle città del mondo.

Napoli vista dal Corso Vittorio Emanuele

Chiedo a Mario: “ma non siete stanco, sempre qui dentro”? Mi risponde: “ io amo stare tra la gente, mi manca la Napoli di una volta, quando la gente si salutava, si parlava, mi piace capire le persone, se, per esempio vedo che al tavolo ci sono persone che possono spendere non mi preoccupo se si sale di qualche euro, se vedo che magari c’è un marito che ha fatto sacrifici per portare la moglie a cena fuori pur di  vederla felice, mi commuovo anch’io e gli faccio lo sconto, insomma, erano meglio i bell’ tiemp’’e ‘na vota quann’’a gente se vuleva ‘bbene”. Quasi, quasi sono d’accordo con Mario…

di Giulia Cannada Bartoli

15 Commenti

  1. Dalla foto traspare una faccia da brava persona, dal racconto se ne ha la conferma.
    complimenti alle persone così, ce ne fossero di più questo mondo andrebbe meglio!!!
    Carpe diem!

  2. Hai chiuso in maniera “magistrale”, carissima Giulia!!! E’ proprio vero, siamo tutti più cattivi, intolleranti, non disponibili ad ascoltare le ragioni degli altri, io dico con il mitra spianato…la parola d’ordine è rivendicare, non chiedere, sempre e comunque, tanto l’assunto è “prima che mi frega lui, lo frego io”. Non c’è più quella “gara reciproca di disponibilità”, di solidarietà, che rende tutto più semplice e più bello e ci fa essere uomini e donne civili. Mah, parliamo d’altro. Mamma, quei polipetti alla luciana cosa dovranno essere!!! E lo scarpariello…che bontà, allo stato puro…ma toglimi una curiosità, bravissima Giulia, la assaggi tutta, quella roba che ci proponi? ;-)))

  3. Lellù, no non assaggio tutto a malincuore, pensa lo Scarpariello solo una forchettata, ma l’avrei mangiatoo tutto!:)

  4. Al Corso Vittorio Emanuele ho lasciato tanti ricordi, ho lavorato lì un po’ di anni fa e faccio sempre un salto in questa zona quando vado a trovare mio zio che abita al Vomero, la prossima volta mi fermo a mangiare qui!

  5. Narratori non ci si improvvisa…W questa rubrica… aspetto con meraviglioso stupore, per scoprire ancora una volta che si può parlare di altro e altre realtà… “buone e belle” in tutti i sensi, soprattutto quello più intimo. Ancora meraviglosa la riconstruzione storica e quello che mi colpisce di più ( oltre quella stupenda pasta e patate con provola…altro che assaggio!!!) è il lato umano del posto…di quello che si racconta, che va oltre il piatto caldo (e che piatti!!!)… e che come al solito, tu riesci a comunicare e a “farti dire”, che sai descrivere grazie alla tua socevolezza, al tuo saperti porre in tutte le occasioni e che dà a noi che leggiamo la possibilità di leggere i piatti e assaporare le persone che ci sono dietro…

  6. La cucina della tradizione napoletana è per un ristorante un continuo esame (tosto tosto!!!) visto che tutti i buoni Napoletani quando mangiano qualcosa di tipico pensano a come lo fa la mamma o la nonna… nn vedo l’ora di assaggiare la pasta e patate (il mio piatto preferito) che mi ha sempre cucinato mia nonna per poter scrivere di aver ritrovato il sapore di quando ero bambino…e poi la suggestione della location farà il resto!!
    Bhè infine che dire?!!?!?… se il cibo è buono la metà di quanto è finemente descritto significa che bisogna che assaggi tutto il prima possibile!!!! :-P

  7. Leggendo questo articolo mi è sembrato di passeggiare con te in quei vicoli, che poi sono anche i miei…peccato che riaprendo gli occhi mi sono accorta che l’odore della pasta e ceci era solo frutto della mia fantasia! Complimenti Giulia, hai una narrativa straordinaria!

  8. mi toccherà trasferirmi a Napoli o farmi un mese di ferie … Mi sembra che l ‘anima della vera cucina campana è ancora viva e tutta da rivalorizzare … GRANDE GIULIA. Fai Una bella guida in tutte le lingue !!!!

  9. Gentile Signora Giulia ho letto con piacere,e una punta di commozione,questo suo scritto.Che oltre a descrivere in un bel modo il locale del Signor Mario,descrive un modo di essere e rapportarci tra noi che sembra essere definitivamente stato deposto nella memoria.Ma non è così, e proverò a spiegarle il perchè.Ho 40 anni e da ragazzino delle medie ,durante una punizione da passare in biblioteca,presi a sfogliare un libro,non ricordo l’autore e nemmeno il titolo,e mi soffermai su un racconto che narrava la rabbia di un oste nel vedere un cocchiere ricco e tronfio chiedere del vino buono e mangiare il suo “cartoccio” di alici fritte,e al suo fianco sedersi un povero lustrascarpe che con appena un pezzo di pane chiedeva il vino più economico.L’oste,non potendone più esclamò,parlando in generale che non c’era più “creanza” e che ai suoi tempi sarebbe successo un finimondo.Il cocchiere attonito rispose a sua volta che il cattivo tempo gli stava facendo perdere le buone maniere e si rivolse al compare lustrascarpe chiedendogli se voleva dividere con lui la prelibatezza del cartoccio.L’oste si mise di buonumore e regalò ai due avventori un altro giro di vino buono.Io da quel giorno ho capito la creanza,che ancora oggi mi fà lasciare un caffè pagato e dal piazzaiolo sotto casa mia due marinare pagate per chi ha fame.E come me tantissima gente si comporta così.Napoli è da amare,da ognuno di noi,come può.

  10. Gentile Sig. De Vita
    gazie di vero cuore, ha fatto commuovere anche me, oggi sembra che ci si debba vergognare di provare e mostrarebuoni sentimenti, al di là di qualsiasi retoria o demagogia. le auguro ogni bene e un sereno Natale , continui a lasciare il caffè e le marinare pagate:)

  11. Gentile Giulia.
    seguo ormai da molte settimane il Suo viaggio tra le vecchie osterie e trattorie di Napoli e Le porgo tutti i miei più vivi complimenti per la cura delle Sue ricerche di carattere storico/urbanistrico e per il trasporto ed il “cuore” che intravedo in tutti i Suoi scritti.Detto questo mi permetto un piccolo suggerimento: perchè limitarsi solo a Napoli? Credo che anche Salerno, con la sua vasta provincia meriti la Sua attenzione. Sono certo che anche nella storia della mia città trovera spunti interessanti che meritano di essere ricordati.
    La saluto con tanta simpatia ed ammirazione.
    Pasquale Cafiero

  12. Grazie di cuore Pasquale, qui siamo una squadra, senz’ altro a Salerno ci sarà qualche amico – collega che fara’ altrettanto
    i miei piu’ cari auguri di un sereno Natale
    Giulia

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