A proposito del Syrah siciliano


Tratto dal suo blog vinoalvino.org rilancio volentieri questo articolo di Franco Ziliani, il più pungente tra i polemisti italiani, a cui seguono alcune mie osservazioni.

Assurdità enologiche: 4800 ettari vitati rendono la Sicilia la capitale del Syrah italiano

di Franco Ziliani
Lo so benissimo, me lo ripeto da solo e non c’è bisogno che me lo ricordino anche gli altri, che è assurdo, non tanto per quanto questa regione avrebbe da dirmi per la sua produzione vinicola, ma per i tesori artistici, architettonici, ambientali che mi sono perso, essere arrivato alla soglia dei cinquant’anni e non avere ancora messo piede in Sicilia. Però, poiché i miei spostamenti su e giù per l’Italia sono in gran parte legati al mio lavoro di cronista itinerante del vino, a spunti e occasioni realmente interessanti per ricavare degli articoli, non mi è difficile trovare alibi e validi pretesti per giustificare il fatto (oggettivamente increscioso) di continuare a tenermi lontano, nonostante il mio amore per il Marsala, i bianchi dell’Etna, il Passito di Pantelleria, per vini strepitosi che nel cor mi stanno come il Faro Palari dell’architetto Geraci, dalle sicule sponde. Il fatto è che questa Sicilia del vino di oggi, questa particolare entità vinicolo – enologica che è venuta configurandosi da una quindicina d’anni a questa parte, non solo non riesce ad entrarmi nel sangue e non mi emoziona né coinvolge, ma non la capisco proprio, le vedo legata a ragioni che la mia ragione non conosce e non comprende, a logiche, se di logica si può effettivamente parlare, a mio avviso inafferrabili. Una conferma, l’ennesima, di questa convinzione, mi è arrivata dalla lettura di un interessantissimo saggio, Excursus sui vini monovarietali da Syrah in Sicilia, opera di due studiosi attivi nell’ambito dell’Istituto Regionale Vite e Vino di Palermo, Salvatore D’Agostino e Stefano Grifo, pubblicato sul numero 6, luglio-agosto, del mensile di viticoltura ed enologia VQ, diretto dalla figlia d’arte Costanza Fregoni. In questo articolo, serio, documentato e dall’approdo multidisciplinare, informativo, divulgativo, ma anche scientifico, visto che sono stati analizzati e sottoposti a screening qualcosa come 32 Syrah monovarietali prodotti in Sicilia, si possono leggere alcuni dati che hanno, a mio modesto avviso, dell’incredibile. Si legge difatti che il Syrah, arrivato in Italia solo a metà degli anni Ottanta, e reintrodotto in Sicilia verso la fine dello stesso decennio, attualmente conta in Sicilia su qualcosa come 4800 ettari, pari al 4,1% della superficie vitata regionale. Con questa superficie . Ma non è finita, perché passando dalle analisi statistiche alla “fantaenologia”, viene detto che in base a questa vastissima superficie vitata relativa al vitigno simbolo della Vallée du Rhône e dell’Australia, . La “Syrahmania” siciliana provoca come diretta conseguenza che al 31 dicembre 2005 “sono state censite 80 etichette di Syrah monovarietale e 70 di uvaggi polivarietali, di cui ben 39 contenenti Nero d’Avola, mentre 5 etichette sono assimilabili a tagli di tipo bordolese cui viene aggiunto Syrah”. I produttori siciliani quando decidono di far uso del Syrah in assemblaggio lo utilizzano in una percentuale variabile “tra il 15 e l’80%”, abbinandolo indifferentemente a vitigni alloctoni come Merlot e Cabernet che ad autoctoni quali Frappato e soprattutto Nero d’Avola, che risulta “ingentilito da tagli con Syrah già a partire dal 15% in volume”. Non avrà ancora raggiunto la popolarità (e la fluviale quantità di ettolitri prodotti e ultimamente svenduti ahimé), del Nero d’Avola, “presente nell’85%, ovvero 160 delle 188 aziende siciliane imbottigliatrici recensite”, il Syrah, ma ben 64 aziende, ovvero il 34%, lo utilizzano diffusamente e con convinzione. E di fronte a questo scenario, ad una Sicilia che oggi si trova “al primo posto della graduatoria nazionale per la coltivazione del Syrah e del Cabernet Sauvignon e al secondo posto, dopo il Veneto, per quella del Merlot”, per quale motivo io dovrei scendere, da cronista del vino e non solo da semplice turista, nella patria di Verga, Pirandello, Sciascia Franco Franchi & Ciccio Ingrassia ? Forse per dedicarmi all’assaggio di vini che di siculo, di territoriale, non hanno nulla e con la loro “raffinata morbidezza, potenza, concentrazione ed eleganza”, con tannini “eleganti, gradevoli e dolci” tentano di scimmiottare (e spesso ci riescono) uno stile tutto spremuta di frutta tipico delle più deteriori espressioni del Nuovo Mondo ? Mi spiace, ma se le prospettive sono queste, preferisco rimanere in continente… Come dicono in Sicilia “beni di furtuna, passanu comu la luna”…

Il successo del Nero d’Avola invita a riflettere
Quando ero piccolino, negli ormai lontani anni ’60, quasi tutto ciò che riguardava lo sviluppo intellettuale, dalla televisione ai registratori, aveva la tecnologia americana, mentre il cibo era ancora il risultato della lunga dominazione della civiltà rurale italiana rivisitata dalla cultura della sopravvivenza maturata dalla tradizione metropolitana partenopea. In poche parole, la testa era ad Occidente, lo stomaco ad Oriente. Se dovessi sintetizzare quello che è successo negli ultimi decenni, direi semplicemente che abbiamo rovesciato la posizione, perché tutta la tecnologia oggi viene dall’Oriente mentre il cibo quotidiano è frutto della omologazione maturata in Occidente e specificamente nella fobica gastronomia anglosassone dove il principio primo è quello di mangiare ogm radioattivi pur di non incontrare i tanto temuti batteri. La pulizia e la banalizzazione post-omogenizzati al posto del sapore, il problema è costituito dalle calorie e dalla quantità di grassi. L’Impero determina le mode, Ubi alium ibi Roma si diceva duemila anni fa, oggi ci sono i cornflakes, l’hamburger e i sandwich, tutti uguali da Seattle alle catene Mc Donald dell’Oman: lo stesso, schifoso, orrido panino plastificato. Detto in soldoni, non sono così sicuro che per il futuro dell’umanità la costruzione di una fabbrica di Coca Cola sia meno pericolosa di una centrale nucleare iraniana. Battute a parte, la drammaticamente eccessiva presenza di Syrah in Sicilia è figlia di questa filosofia nella quale il valore che detta le leggi è costituito dall’omologazione, dalla uniformità del gusto, da vini facili per chi è cresciuto con gli omogeneizzati e festeggia il compleanno nelle catene alimentari dove il cibo sa di plastica, solo apparentemente sicuro visto l’aumento verticale dei tumori al colon nella società occidentale. Franco denuncia questa situazione paradossale, ma una volta tanto preferisco scavalcarlo nella vis polemica e invitare a riflettere, come il successo del Tavernello…Syrah, va bene, mi ricorda la soia di Ferruzzi in Valpadana, ma vogliamo parlare della distruzione varietale del Nero d’Avola? Qui il fenomeno è ancora più grave, mi ricorda gli indiani d’America portati nei circhi perché dietro il paravento del vitigno autoctono l’operazione di banalizzazione e omogeneizzazione è ancora, se possibile, più violenta. Detto fra noi, quanti Nero d’Avola passeranno alla storia, quanti ne conserveremo gelosamente nelle nostre cantine per anni come si fa per il Barolo, l’Amarone, il Brunello o il Taurasi? Ogni regola ha le sue eccezioni, ma mentre nelle tipologie citate la piallatura papillosa è l’eccezione, nel caso del Nero d’Avola, competitor con il Syrah, è la regola. Il fatto è che il mondo del vino nel mercato di massa, anche se ammantato e comunicato in modo diverso da quello del cheeseburger, segue le stesse logiche commerciali, è il gusto che deve adeguarsi al mercato e non viceversa, così l’autoctono in questo caso serve a dare un quid in più sul piano della comunicazione, la sensazione mentale di bere qualcosa di particolare ma al tempo stesso in bocca è immediatamente riconoscibile, mai disarmante perché… perchè… perché <è come un Merlot!>. Tutto questo servirà a salvarci dall’alluvione dei prodotti del Nuovo Mondo? Credo molto poco, come dimostrano le avventure di altri prodotti della filiera agricola italiana entrati in competizione seguendo le stessere regole: al momento noi che la pensiamo forse in modo un po’ snob, al punto che io arrivo a sostenere la tipicità del Cabernet di Tasca d’Almerita rispetto alla maggior parte dei Nero d’Avola in circolazione, siamo come i pesciolini rimasti intrappollati in una ampolla d’acqua dalla secca dei fiumi o dal ritrarsi della marea. Ma io non ho dubbi che su questa partita si gioca il futuro del vino e dell’agricoltura italiana: solo facendo qualcosa che non piace a tutti si  finirà per essere apprezzati da tutti. I produttori, in questa fase della storia commerciale in cui il vino italiano decide il suo assetto per i prossimi decenni, devono avere il coraggio di pensare sempre per la fascia alta dei consumatori, anche quando lavorano alle bottiglie di tre euro. L’alternativa è il Syrah di una qualsiasi altra regione mondiale dove si potrà produrre a prezzo più basso che in Sicilia. E questo avverrà, statene certi. E se i giovani di Milano e Roma dovranno bere al winebar un Nero d’ Avola che somiglia ad un Merlot, prima o poi sceglieranno direttamente un Merlot cileno o argentino, statene certi.  Ma un Carricante dell’Etna chi mai potrà replicarlo, o, meglio, quante vendemmie sarebbero necessarie? Per scoprire l’altra Sicilia, caro Franco, devi subito andare in Sicilia! (l.p.)