Aimo Moroni, l’uomo che nobilitò il cipollotto
di Giulia Gavagnin
Gli ultimi pezzi di Novecento se ne stanno andando e, con questi, la loro eredità culturale. Nella notte tra il 5 e il 6 ottobre, ci ha lasciato all’età di 91 anni Aimo Moroni, gigante della Grande Cucina Italiana con la “C” maiuscola e personaggio illustre della città di Milano, tanto da essere insignito dell’Ambrogino d’Oro nel 2005 per il contributo che il suo famoso ristorante “Il Luogo di Aimo e Nadia” ha dato non solo all’eccellenza gastronomica milanese, ma anche all’humus culturale tout court della città.
Aimo Moroni, noto semplicemente come “Aimo”, tuttavia, non era milanese di nascita, ma del capoluogo lombardo era uno dei figli prediletti per la capacità di adattamento e per avervi trovato fortuna e benessere, nello spirito calvinista della città.
Toscano di Pescia, provincia di Pistoia, giunse a Milano ancora ragazzino per fuggire alla povertà della campagna italiana del secondo dopoguerra. Aveva solo tredici anni quando fu sorpreso da un vigile urbano a vendere caldarroste in città e, perciò, multato per esercizio di lavoro minorile. Racconta la figlia Stefania al Corriere della Sera che la scena non passò inosservata. Da quelle parti passavano Wanda Osiris e Carlo Dapporto, che pagarono al ragazzino un sacchetto di caldarroste al prezzo della multa che gli era stata comminata, permettendogli così di non passare guai.
Era una vita agra, che forgiava il carattere.
Così il giovane Aimo, dopo aver sbarcato il lunario per anni con lavoretti saltuari, abbraccia la passione di famiglia e, insieme alla madre cuoca nel 1955 apre la prima rudimentale trattoria a Milano, in via Copernico, dove impara i rudimenti del mestiere.
Nel 1962 si spinge in quella che allora era estrema periferia della città, in via Montecuccoli, quartiere Primaticcio e, insieme alla compagna di una vita Nadia Giuntoli apre quello che diventerà “Il luogo di Aimo e Nadia”, ovvero uno dei luoghi dove è stata letteralmente inventata l’alta cucina italiana.
Avanguardista a modo suo, genio semplice dall’intuizione fulminea forgiata dalla durezza del lavoro contadino, Aimo fin da subito ha intenso nobilitare la materia prima delle regioni italiane, forgiata da quello stesso mestiere contadino che egli stesso aveva conosciuto fin dalla più tenera età. Così, mentre nella nascente alta ristorazione del dopoguerra impazzavano i riferimenti alla Francia, Aimo categoricamente (si) vietava il foie gras per servire, invece, la più alta versione del patè toscano. Non solo. Era profondamente innamorato dei prodotti della terra e delle verdure, che sceglieva personalmente al mercato la mattina all’alba. Da questa inclinazione, corroborata dalla convinzione secondo cui “non esistono ingredienti poveri” nascono prima lo spaghetto al cipollotto (poi diventato “spaghettone”) e poi la celebre zuppa etrusca in omaggio a studi archeologici che testimoniavano l’abitudine degli antichi di intrattenersi in lunghi banchetti con piatti a base di farro, finocchietto selvatico, legumi, ortaggi. Proprio quelli che compongono la zuppa, il primo esempio di minestrone gourmet che si ricordi.
Questa inclinazione all’estrema regionalità –il particolare- lo rendeva profondamente diverso dall’amico/rivale Gualtiero Marchesi che, invece, perseguiva il proprio concetto di alta cucina attraverso continui riferimenti a opere d’arte e letterarie universali. Diversissimi nelle premesse, hanno tuttavia perseguito obiettivi comuni: alleggerire i piatti, studiarne la digeribilità, formare degli allievi.
Da un lato, Umberto Veronesi lodò la zuppa etrusca quale modello di “piatto della salute”. Dall’altro, Aimo ha consegnato le chiavi de “Il Luogo” a due dei suoi migliori allievi i quali, non è un caso, si sono incontrati nell’ultima grande cucina classica italiana, dal Pescatore a Canneto sull’Oglio.
Oggi, Alessandro Negrini e Fabio Pisani guidano senza cedimenti “Il Luogo di Aimo e Nadia” insieme a Stefania Moroni. Il gruppo gestisce anche “Voce” nel pieno centro di Milano e il bistrot in via Matteo Bandello, firma una serie di prodotti e si adopera per la formazione degli allievi, nel segno delle indicazioni di Aimo, che fino all’ultimo ha abbracciato la causa del primato della materia prima.
Negli ultimi anni ha fatto alcune apparizioni come ospite di convegni ed incontri, sempre ammonendo che prima vengono la materia e la tradizione, e poi il cuoco.
A suo dire, dietro a certa supposta creatività, si nasconde uno sciocco egocentrismo. “Quando viene da me uno chef e mi dice: questa è la mia cotoletta è rivisitata, impazzisco”, diceva.
Molti giovani chef magari non lo sanno, ma Aimo aveva avuto alcune intuizioni che oggi sembrano mirabolanti, quarant’anni prima di loro.
La sua scomparsa dovrebbe essere l’occasione per riscoprire il pensiero di un uomo che ha nobilitato l’animo contadino in una cucina di perfetta semplicità e purezza, che ha segnato un’epoca non solo per città Milano, ma per la storia della cucina italiana.

Caro Aimo, 50 anni fa venimmo a pranzo, mia moglie ed io. magiammo gli spagnetti piu; semplici e gustosi al mondo, Fatti con la “Bianca di Maggio” Il vero nole del cipollotto. Il gusto mi e’ sempre rimasto nel mio palato.
Caro Aimo, Resta in Pace.