Alessandro Marra al nuovo ristorante di Ilario Vinciguerra


Lo spaghetto di Gragnano con la scarola e la colatura di alici di Ilario Vinciguerra

di Alessandro Marra

Capisci di amare qualcuno o qualcosa quando ti trovi a fare i conti con la mancanza. Di una persona speciale, di una terra, di certe abitudini, per dire. E quando la senti, la mancanza, non fai altro che pensare e ri-pensare, più o meno inconsapevolmente, a volte con il sorriso stampato in faccia, lo sguardo assorto, gli occhi più o meno chiusi. Batte il cuore, senti forte la voglia, il desiderio. Tutto questo, può capitare, appena prima delle urla del professore che ti richiama all’attenzione, con una prolungata esitazione, nel mio caso, sulla vocale finale del cognome. Ebbene sì, a scuola ero spesso “nostalgico”.

La “nostalgia canaglia che ti prende e che ti porta via” mi prende con una certa frequenza ma non mi porta via altrettanto spesso. Eppure le possibilità per tornare a casa non mancano: auto, treno, aereo. Fanno più o meno 800 km, percorribili in 8-5-4 ore, a seconda del mezzo prescelto (in aereo ci impiego più o meno lo stesso tempo che mi occorre in treno, contando check-in/-out e rientro a Benevento da Capodichino).

Solo che spesso il lavoro mi trattiene qui. E non mi resta, quindi, che giocare a fare il disadattato, contravvenendo alle stupide ma (certe volte) indispensabili routine metropolitane e mettermi a fare le cose che faccio abitualmente quando sono al Sud. Tra queste, bere e mangiare (non che al Nord non lo faccia, anzi).

E così mi ritrovo quasi senza pensarci al volante, imbocco l’A8 in direzione Svizzera (paradossalmente ancora più a Nord) per andare a pranzo nel ristorante nuovo di pacca del conterroneo Ilario Vinciguerra.

Confesso che aiuta, e non poco, la struttura incantevole e lo scenario un po’ bucolico, un’oasi di verde in mezzo al grigio che domina la stessa Gallarate. Mi sono sentito subito a casa. Ed è andata ancora meglio per tutto il tempo che sono rimasto seduto a tavola, compreso quando lui, lo chef, si è avvicinato per fare due chiacchere con il classico timbro di voce di uomo del Sud e quell’accento che non si può proprio perdere. E già c‘aveva pensato prima, a farmi ambientare, con un paio di cosette di quelle che urlano la propria… napoletanità, si può dire!?

Okkei, non sono napoletano. Mi capita di dire sono di Napoli solo se voglio tagliare corto, per il resto preferisco sempre rispondere sapendo già di dovermi ripetere alla scontatissima domanda successiva, dov’è Paduli? Ma sono altri discorsi. Taglio corto anche qui e vi dico subito a cosa mi riferisco.

Innanzitutto, lo spaghetto di gragnano con la scarola e la colatura di alici. Una goduria. Con quella nota verace dominante e la spiccata territorialità regalata dall’uso assolutamente non parsimonioso della colatura.

E, infine, la pastiera napoletana al cucchiaio, l’oro di Napoli, come lo chiama lui. In due parole, un macaron di pastiera servito già adagiato sul cucchiaio. Pronto all’uso, insomma. Una vera pastiera, solo di forma diversa.

La pastiera

Che poi, sta forse proprio in questo la genialità di un personaggio che è rimasto fortemente ancorato alle sue origini: nel guardare indietro, alla tradizione, interpretandola con creatività. Con le mani e, soprattutto, col cuore.

12 Commenti

    1. Sono stato ieri sera un ristorante da sogno , finalmente i piatti di ilario hanno trovato “casa” ,un servizio perfetto di stile sempre capitanato dalla moglie grande donna di classe ,credo che possa arrivare subito alle due stelle e nel giro di qualche anno alle tre (glielo auguro) anche perchè oggi visto il periodo trovare uno chef-patron che investe in prima persona una paccata di soldi è solo da premiare ..
      grande anzi grandissimo ilario auguroni………………………………………………………

  1. Vulcaniano: in attesa di sapere se il riferimento è mitologico o extraterrestre, oppure se Vinciguerra sotto la chioma fluente ha orecchie a punta come il Dottor Spock.

  2. complimenti, il pezzo è molto bello, finalmente una ventata di freschezza nelle recensioni (peraltro milano, milano centro, è l’unica città in cui mi sono stranamente sentito a casa, pur essendo io di salerno). oh, mi permetterai, sarebbe stato meglio spendere un po’ più di parole sulle portate.
    ;-)
    aspetto un tuo nuovo pezzo.

    1. Ti ringrazio, Gaspare!

      L’idea era quella di parlare delle emozioni provate attraverso queste piatti, non di fare una recensione.
      Anche in questo caso, però, qualche parola in più potevo spenderla… ;-)

      A presto.

    1. Grazie, Giuseppe!
      Mi conosci, non potevo bere acqua… :-D
      Pouilly-Fumé 2002 de Ladoucette, Barbaresco “Moccagatta” 1997 Produttori del Barbaresco.

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