Amber Wine Festival, Trieste 21 ottobre 2022. I cinque migliori assaggi


di Giulia Gavagnin

“Vorrei dirvi.

Nel Mio Carso
Scipio Slataper confessa ed esorcizza, nei primi tre capoversi che iniziano tutti con le parole “vorrei dirvi”, una tentazione di mentire. Egli vorrebbe dire ai suoi lettori, e cioè agli italiani, di essere nato in Croazia o nella pianura morava; egli vorrebbe dar loro intendere di non essere un italiano e di ver solo imparato quella lingua in cui scrive, e che non gli placa bensì gli ridesta “il desiderio di tornare in patria perché qui sto molto male”. Ma i suoi lettori, “scaltri e sagaci”, aggiunge, capirebbero invece subito che egli è “un povero italiano che cerca di imbarbarire le sue solitarie preoccupazioni”, un loro fratello tutt’al più intimidito dalla loro cultura e dalla loro accortezza.

Nell’aspra e scontrosa liricità del Mio Carso Slataper, vincendo con la sua sincerità l’impulso alla declamazione, identifica la triestinità con la consapevolezza e il vagheggiamento di una diversità reale ma indefinibile, autentica quando viene vissuta nella pudica interiorità del sentimento e subito falsata quando viene proclamata ed esibita”.

Questa lunga prolusione non è mia, ovviamente, ma del più grande letterato triestino ancora vivente: Claudio Magris.

E’ del 1984 “Trieste-Un’identità di Frontiera”, dove l’autore (insieme al professore Angelo Ara) tratteggia la grande cultura, le contraddizioni, la multiculturalità della città più mitteleuropea d’Italia, quella sorvegliata dall’aquila bicipite dell’imperial-regiogoverno e culla dell’irredentismo italiano insieme.

Scipio Slataper, il grande autore del Mio Carso voleva uscire da quell’identità gravosa ed essere magari carsolino, moravo, boemo o chissà altro, perché di quella civiltà sentiva il peso, l’essere sentimentale di Schiller, non l’ingenuo.

La capitale della mitteleuropa italiana è stata per due giorni protagonista di un affascinante evento enologico, Amber Wine Festival, all’interno del Castello di San Giusto.

Tra le sue antiche mura e le stanze petrose sono apparsi tutti i più importanti autori di quelli che –volgarmente- vengono chiamati “orange wine” o vini macerati.

Noi preferiamo definirli “vini bianchi vinificati in rosso”.

Perché con tutte le diverse tecniche di vinificazione che questi vignaioli adottano, il minimo comune denominatore rimane il contatto con le bucce, più o meno lungo, più o meno intenso.

La vinificazione a contatto con le bucce è l’espressione più tipica dell’enologia di questo territorio, la sua identità più marcata.

Un’identità nell’ “identità di frontiera”.

E i suoi vignaioli sono tutto ciò che non era Scipio Slataper: loro possono cantare legittimamente il Mio Carso perché lì sono veramente nati, sulle appendici carsoline di Trieste, in Slovenia o in Croazia. Sono perlopiù di minoranza slovena o sloveni o croati. Coltivano la vite sulla ponca, la marna arenaria del Collio ovvero sul terreno calcareo carsolino.

Si sono radunati tutti lì, a San Giusto.

Vediamo quali sono stati i migliori assaggi.

1. Gravner, Ribolla 2011 – Oslavia (GO)

Non appare volentieri alle manifestazioni, l’orso colto di Oslavia.

Per il vero, non era presente neanche questa volta, era rappresentato dalla figlia Mateja, ma quantomeno era presente al pubblico la sua promanazioneuna-e-trina: la ribolla in anfora.

Iniziamo dalla fine.

La Ribolla 2011 è stato il miglior assaggio della giornata, il più spiazzante, il più inatteso.

Perché se l’annata 2014, anch’essa in degustazione, è stata notoriamente difficile e nelle difficoltà i grandi uomini danno sempre il meglio, è già stata all’unanimità celebrata come eroica, anche per il lavoro amico della botrite nobile.

Nell’incessante assecondare le stagioni di Josko
Gravner, è come se in questa 2011 poco piovosa si sentisse nel sorso liquido la tarda estate. Un inizio di evoluzione che porta alla mente un grande Porto, qualche nota dell’olivo del Carso, anche in foglia e una inaspettata sensazione mediterranea di cappero e di caffè. L’albicocca disidratata poco dolce, caratteristica imprescindibile dei suoi vini era stemperata in una nota candita, quasi di mostarda.

Suggestionati dalla storia di Josko, ci sembra quasi di sentire il profumo dell’alba di una tarda estate a Lenzuolo Bianco, località di frontiera censita dai racconti della Grande Guerra.

Che vino!

Mi piacerebbe abbinarlo al famoso risotto di Massimiliano Alajmo ai capperi e caffè e, per osare, perché no, anche a un piatto poco dolce di Corrado Assenza.

 

2. Damijan Podversijc, Ribolla 2017 – Gorizia

Damijan Podversic ha fatto edificare una splendida, avveniristica cantina nuova sul Monte Calvario, al limitare di una strada sterrata.

La prima volta che siamo andati a trovarlo era scettico, perché non era certo che i suoi figli avrebbero seguito le sue orme.

Quest’anno è sollevato: ha capito che in Tamara avrà un’erede formidabile, e di questo potrebbe anche essere geloso.

Tamara Podversic

Tamara Podversic

Tamara ha studiato in Borgogna e continuerà la tradizione paterna sulla strada dei suoi insegnamenti: un grande vino deve avere una grande uva, un grande terreno e il seme maturo.

Proprio Tamara a Trieste ci ha ammansito una delle più grandi annate di ribolla targata Damijan, la 2017, impreziosita da una massiccia azione della botrite nobile.

Damijan ha sempre paragonato il suo Nekaij (Tocai o meglio, Friulano per i burocrati di Bruxelles) a una donna appariscente che ci si volta a guardare, e la Ribolla a una ragazza che non colpisce al primo sguardo, ma della quale ci si innamora la seconda volta.

Gravner

Gravner

I suoli sono diversi da quelli di Gravner, qui siamo ancora in Collio, l’estate di Damijan appare nel bicchiere più luminosa, con note di agrume croccante, zagara, eucalipto e una balsamicità prolungata che da qualche tempo non si sentiva. I tannini sono rotondi, conferiscono spalla e spessore, non sono invadenti.

 

3. Skerk, Ograde 2020 – Prepotto (TS)

Sandi Skerk è diventato nel corso degli anni uno dei più grandi interpreti della vinificazione sulle bucce.

Sandi Skerk

Sandi Skerk

Anche lui ha edificato una nuova cantina, contigua a quella già in uso a Prepotto, caratterizzata dalle pietre a vista, il terreno rosso mattone tipico di questi suoli ricchi di ferro, spaccati di carsismo.

Ha ereditato l’azienda dal padre, a un certo punto s’è ribellato, ha cambiato direzione nel senso di ostinata e contraria, ha trovato la sua strada. Tra la vitovska e la malvasia quest’anno il terzo gode.

L’Ograde 2020 è un blend di Vitovska, Malvasia, Sauvignon e Pinot Grigio.

Un pout-pourri di uve locali, con il sauvignon a dare un tocco di aromaticità agrumata. Fortemente complesso, ancora giovane, ha una forte carica di sentori balsamici e equilibri minerali, con il frutto in piacevole sottofondo. Dire che si sente “il vento” sarebbe ridondante, ma tant’è.

 

4. Clai, Jakov 2018 – Brajki, Croazia
Clai - St Jakob

Clai – St Jakob

Nemmeno Giorgio Clai è nato a Trieste, anche se vi ha officiato per molti anni come ristoratore.

Giorgio Clai

Giorgio Clai

E’ nato in Istria, e in Istria è tornato, come un richiamo ancestrale.

A Brajki, dove è nato, si è sempre coltivata la vite, il mare è poco distante, il microclima favorevole.

Clai si è approcciato alla viticoltura da adulto, affrontando notevoli difficoltà all’inizio, per l’inesperienza, e per la volontà ferrea di vinificare in modo ancestrale, che per lui significa con la minore quantità possibile di solfiti.

L’azienda nasce nel 2002, quindi oggi Giorgio Clai ha vent’anni di esperienza.

La Malvasia “Jakov” 2018 è coltivata sulla ponca bianca: non ha dunque le caratteristiche della cugina triestina, che cresce su terreno ferroso.

Ha un’aromaticità discreta, con sentori di frutta esotica e quella cosa che oggi va di moda, la sapidità, davvero esuberante.

E’ un vino che sa di mare, di tramonto e di uliveto mediterraneo, non indulge su macerazioni ingombtranti, è decisamente elegante,

 

5. Kristian Keber, K 2019, Dobrovo Brda, Slovenia

Kristian Keber

Kristian Keber

Se la definizione “orange” non è esaltante, per questo vino è calzante. A partire dal colore ambrato, fino al bicchiere, questa “summa” di terroir è composta da ribolla gialla e friulano e una piccola percentuale di malvasia istriana per una macerazione di dodici giorni.

Kristian è figlio di Edi, contuna a lavorare nell’azienda paterna, ma ha voluto interpretare il territorio al di qua del confine.

Un bicchiere intriso di mediterraneo, con tante erbe spontanee, cipresso e salicornia, fiori gialli e pesca gialla, albicocca disidratata, e un’eleganza superiore ad altri produttori.

Una promessa del vino internazionale.