Bere e guidare, come Steve Mc Queen?


Steve Mc Queen

di Fabrizio Scarpato

Preferisco avvenire che essere avvenente: Alessandro Bergonzoni spacca in due il teatrino dell’apparire televisivo, l’imbellettamento del pagliaccio piacione, l’abisso tra fare e sembrare. Allo stesso modo, dire preferisco succedere anziché avere successo scardina i pioli malfermi della scaletta per la notorietà mediatica. Successo, avvenente: giochi di parole sui participi, passato e presente, senza tempo: come Steve McQueen?


Steve se ne sta appoggiato ad una fuoriserie in giacca di tweed: indossa una maglia girocollo e jeans slavati a sigaretta, ai piedi un paio di scarponcini scamosciati. Ammiro e vorrei copiare: altro che successo, cesso, non solo nel senso di smetterla. Nemmeno mi piacciono quei girocollo di shetland, fanno pretino; e la camicia dal collo basso, dove la mettiamo? Bianca, poi. Questione di stile, dice. Certo. Occhi da cane arruffato, e via sdilinquimenti, che Paul Newman se li sognava, anche quando si macerava tracannando Suffering Bastard sul tetto della gatta Liz: eccome se scottava, il tetto. E anche la gatta. Miti spericolati (ecco l’ho detto, cavato il dente della vita da Roxy Bar, non se ne parla più): velocità, macchine e moto: “correre per me è vita, tutto quello che viene prima o dopo è soltanto attesa”. Correre, per abbreviare la sofferenza dell’attesa. Segnali di dentro che solcano un viso e piegano la bocca: puoi mettere una t-shirt o un cardigan sciallato, ma sarà l’anima che passerà, dagli occhi: succedere, avvenire. Infiniti. Inimitabili.
The king of cool: freddamente nel tempo, non son sicuro riuscisse a cacciare l’attesa senza bere, ma non si beve a Le Mans. Non si beve se si guida. Alcol come una droga, pericolosità sociale elevata, non sono ammesse mezze misure: quando si guida non si beve, anzi è bene bere il meno possibile, sempre.
Bere: l’infinito semina il dubbio di reiterazione. E’ un modo di definire un gesto che non mi piace: c’è un che di canzonatorio e definitivo. Mi piace il vino, ti sè n’alpin. Eppure già sgravare della negatività intrinseca la parola “bere” sarebbe un passo avanti nel tentativo di capire, conoscere, responsabilizzare. Farne un gesto, consapevole e vincolato, quando necessario azzerato: il contrario dell’alcol sradicato, mezzo banale, sorta di lubrificante sociale per raggiungere degli effetti, per intrecciare relazioni in modo disinibito. Una necessità collettiva: sembrare, apparire, mascherare. Stare stretti nei propri panni.
Se non posso bere, se non devo bere, esistono, sono sempre esistite, le bevande analcoliche: acqua, gazzosa, spremuta, succo di frutta, bibita. Infiniti liquidi potabili senza gradi, quando occorre, quando è responsabile saperlo comprendere. Una crescita che non ha bisogno di falsi miti né succedanei: né spritz, né vini dealcolizzati. Vino senz’alcol, partita senza pallone, vela a motore, controsenso: perché chiamarlo vino? Contraddizione di termini.

Foglie di fico che perpetuano il “gesto”: importante è “bere”, poi ti incanto con la dealcolizzazione, ti omologo con lo spritz falsamente analcolico, gradi quanto basta da sprizzare nella cannuccia qualche punticino. Sembra che il bere sia inevitabile, tra i ragazzi: necessario non perdere l’abitudine al gesto, mantenersi in allenamento.


Cosa separa conoscere un vino nel bicchiere, compresa anche la capacità di farne a meno, dai bidoni di spritz, dalle caterve di birrette e dagli esotismi con ombrellino, si chiamino Asia, Krisstal, Night and Day? Affari, soldi, notorietà, mode, in una sequela di contest, cocktail, soft, health, low alcohol, mixologist, piacere, alcol-free, mix e soda; senza disdegnare, però, campari, gocce di vodka, prosecco, cherry brandy. Wine not? Quanti punti sulla patente? Un equivoco, un po’ ipocrita, spesso integralista, per aprire altri mercati, per soddisfare nuove sensibilità. Perché no? Specchietti imposti, avvenenti e di successo, sorta di par condicio del bicchiere. “No alla repressione, sì all’ educazione”: ma quale educazione, se deve passare attraverso la riproposizione ottusa del modello da evitare? Pericoloso, come girare con una city car.
Nemmeno se sul mio scooter indossassi una Belstaff Trialmaster, jeans e Persol sul naso potrei somigliare a Steve McQueen, perché è inimitabile e perché non avendone le capacità, andrei a sbattere sia come motociclista che come uomo. Non ho il suo stile, né il suo fascino: non ne dispongo. E preferisco non disporre che essere indisponente, sebbene quest’ultima condizione, in fondo, sia sempre preferibile all’essere indisposto. Per consolarmi può bastare un Negroni, e poi vado a casa, a piedi. Disobbediente. Come Steve McQueen.

(Fonti: La Repubblica, D di Repubblica)

6 Commenti

  1. Steve McQueen un grande, morto a nemmeno cinquant’anni… il film che rammento meglio è Getaway, e non solo. Finalmente un post che mi ha preso davvero. Steve McQueen una leggenda.

    s.

  2. bravo, il vino non ha bisogno di ipocrisia per trovare il suo posto tra noi. Bere e guidare e’ pericoloso,bere troppo e’ pericoloso anche se non si guida. Riconoscerlo, e da qui partire, che e’ sempre meglio che essere dipartiti. :)

  3. Appena ho mezza giornata libera leggo bene il pezzo di Fabrizio :-))

    Se parliamo di Steve “Persol” McQueen il consiglio cinefilo è quello di ripescarsi La grande fuga e Soldato sotto la pioggia, due grandi film, il primo straconosciuto, il secondo più intimo e triste. Per gli amanti delle quattroruote (vero Maffi ?) invece il poco visto “Le 24 ore di Le Mans”, praticamente un’autobiografia.

    1. IO l’ho visto 3 volte. Credo che assieme a “Indianapolis Pista Infernale” sia uno dei pochissimi film automobilistici palusibili.

      PS.: a 0.8 si è pericolosi, a 1.1 si è come una pistola carica. ho fatto la prova.

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