Coronavirus | Riprenderci il passato per conquistare il futuro nel vino e nella ristorazione


Angelo Di Costanzo

Angelo Di Costanzo

di Angelo Di Costanzo
Food&Beverage Manager e Sommelier

Non sono mancate nelle ultime settimane innumerevoli analisi e teorie alla base di questa tremenda emergenza sanitaria mondiale dentro la quale sembrano essersi smarrite tutte le certezze e le sicurezze che ognuno, ovunque nel mondo, sembrava certo di poter mantenere indipendentemente da cosa accadesse in giro nel mondo.

Sino a che non mi tocca, non mi riguarda, si pensava. Così non è, così non è mai stato. Si è fatto quindi largo sin dalle prime battute un grande spirito di ottimismo, #andràtuttobene è diventato velocemente lo slogan dietro al quale tutti, ovunque in Italia e negli altri paesi colpiti dal Covid-19, ci siamo velocemente ritrovati, uno slogan dal suono matrigno, quasi ancestrale: un hashtag, tre parole tre, unite da un grande arcobaleno e piene di significato.

Ma andrà-tutto-bene? Ecco, restando a quel che più ci compete e ci appassiona, parliamo di vino e cibo da queste parti, senza entrare nel merito economico e politico, men che meno in quello sanitario visto il numero di analisti, statisti e scienziati che sin dalle prime battute di questa emergenza hanno visto bruciare i loro studi, le loro proiezioni, le loro certezze in men che non si dica, mi piacerebbe, più semplicemente, riportare su queste pagine una personale breve riflessione, ma non su quello che ci aspetta domani – davvero si pensa che ci sia qualcuno capace realmente di farlo? – bensì su come ci siamo potuti ritrovare a questo punto, a questo preciso momento storico, evidentemente nudi davanti alla realtà.

In principio l’obiettivo era proporsi al mercato, conquistare spazio, con qualità e professionalità. Un vino con una storia da raccontare, quel vitigno unico, un territorio preciso, le persone giuste, le storie famigliari. Un prodotto o un cibo da preservare, promuovere a nuova vita, rilanciare la sua storia, il valore della sua tipicità, delle persone capaci di tramandarne la tradizione. Così un posto, un’Azienda, un Negozio, una Trattoria, un Ristorante, un’Osteria, una Pizzeria con delle idee chiare nel costruire una storia, un piano di sviluppo, un progetto da seguire per affermare dei valori concreti e non, soltanto, dei numeri, avevano tutti, ognuno, il proprio spazio dove proporsi sul mercato, dove costruire relazioni, legami, il proprio futuro.

Poi è arrivata la globalizzazione, non una parola qualsiasi ma quel fenomeno basato sull’intensificazione degli scambi e degli investimenti internazionali su scala mondiale che, a partire dalla fine del XX secolo è diventato un mantra tanto inarrestabile dal creare sempre maggiore interdipendenza tra le economie nazionali ma anche e soprattutto socialiculturalipolitiche e tecnologiche con i suoi innumerevoli effetti positivi ma anche, inevitabilmente, con enormi strascichi negativi sul breve e lungo termine.

Abbiamo così inseguito la velocità delle comunicazioni e della circolazione delle informazioni, una nuova grande opportunità di crescita per chiunque avesse carte da giocarsi, e da un punto di vista strettamente economico un trampolino di lancio incredibile per alcuni paesi a lungo rimasti ai margini dello sviluppo economico mondiale, vedi ad esempio proprio paesi come la Cina o l’India, con benefici sostanziali di cui poi tutti abbiamo potuto godere direttamente o indirettamente, vedi la riduzione dei costi di tantissimi prodotti grazie all’incremento della concorrenza commerciale da questo momento da considerare su scala planetaria.

Abbiamo però continuato a trascurare gli aspetti negativi, sottovalutandoli, e probabilmente continueremo a farlo: lo sfruttamento, il degrado ambientale, l’aumento delle disparità sociali, la perdita delle identità locali, in qualche caso la riduzione delle sovranità nazionali e le autonomie delle economie locali. La sovrabbondanza di conquiste ci ha talmente abbagliati che non ci ha fatto cogliere a pieno il reale costo della cessione di tutte queste libertà, un eccesso di fiducia in questa straordinaria onda economica che più che renderci sazi ci ha resi obesi e ciechi.

Sul tema strettamente enogastronomico le influenze e le deficienze sono sotto gli occhi di tutti. Il vino ha vissuto momenti di grande slancio economico rilanciando interi territori, creandone dei nuovi e affermando nuove tendenze, qui l’eccesso è stato però puntare a stravolgere ben oltre quanto sia stato valorizzato, con molti protagonisti votati più a fare e imbottigliare di tutto, anziché specializzarsi, pur di levare spazio e quote di mercato ad altri, ed anche tante piccole realtà non sono certo passate indenni dal vino Rosato o lo Spumante pur di avere una referenza in più in catalogo, disperdendo il più delle volte valori e capitali.

Un crack ancora più evidente nella ristorazione, in un paese di grande storia e tradizione culinaria, con un patrimonio incredibile di materie prime e produzioni alimentari che nessun altro paese al mondo può vantare. Abbiamo ceduto con incredibile velocità alla globalizzazione, disperdendo altrettanto velocemente un patrimonio enorme, quello delle Osterie, delle Trattorie, finanche delle Pizzerie sino a pochi anni fa e dei Ristoranti che hanno fatto scuola per decenni nel nostro paese, ognuno con la propria storia identitaria, una vocazione precisa, imitati e replicati – anche in maniera grottesca se vogliamo, ma genuina – ovunque nel mondo, formando cuochi e camerieri che hanno segnato profondamente la storia dell’ospitalità e dell’accoglienza italiana. Un crack che abbiamo accettato scientemente, certificandolo ridimensionando un po’ alla volta le storie dietro questi straordinari luoghi della memoria.

Sbaglia chi pensa che lo abbiamo fatto cedendo ai ristoranti cinesi, alla cucina giapponese, ai locali etnici. Sbaglia chi è certo che andava fermato lo straniero, il Kebab o il Ceviche. O almeno in parte. Il reale declino si è acuito quando abbiamo cominciato a pensare che le Osterie potessero fare bene anche a proporre Kebab o Sushi, che le Trattorie diventassero, come poi anche le Pizzerie, avamposti Gourmet a basso costo purché forniti di una cantina di tutto rispetto, mentre i Ristoranti, in quanto balocchi ed elevati nel nome dello chef, non necessariamente con una storia, potessero ambire legittimamente non più, non solo, al sogno Stellato da costruire anno dopo anno ma puntare, a suon di fragorosi gingilli e senza limiti temporali, al firmamento planetario.

Ecco, non è forse questo rincorrere modelli drogati e volti prevalentemente a levare agli altri spazio e sostanza che ci ha di fatto disorientati e privati di riferimenti? Nel nome della domanda l’offerta enogastronomica si è talmente globalizzata sino a smarrire identità. Più che domandarsi quindi se #andràtuttobene sarebbe forse il caso di ripartire da qui: riprenderci il passato per conquistare il futuro.