Davide Paolini, Confesso che ho Mangiato. Dal suo ultimo libro una riflessione sulla critica liquida e sui critici da social


Con Davide Paolini e Silvio Perrella

Ieri abbiamo presentato a Palazzo Reale l’ultimo libro di Davide Paolini pubblicato da Giunti: “Confesso che ho mangiato“. Un volume che raccoglie in ordine sparso le sensazioni, i viaggi, i personaggi, i prodotti, che Davide ha incrociato nel corso della sua trentennale carriera mosso da una irrefrenabile curiosità.
Un libro agile, da leggere a spizzichi e bocconi come si diceva un tempo, perché sono tanti piccoli racconti, quelli che si potevano raccogliere un tempo nelle cene fra giornalisti che diventavano anche un aggiornamento.
Davide appartiene all’epoca in cui, non esistendo internet, tutto il mondo enogastronomico era ancora una scoperta e necessitava di forti investimenti in termini di tempo. In sostanza, chi più viaggiava più sapeva.
Perciò il suo libro è una testimonianza preziosa in un Paese in cui non esiste ancora una storia della critica gastronomica perchè, a parte Soldati e Veronelli, i fondatori non hanno lasciato quasi nulla di scritto e di pensato se non appunto le guide che hanno diretto.

Oggi la situazione è profondamente cambiata grazie ai social network. Abbiamo visto che in poco tempo chiunque si può improvvisare critico gastronomico pur non essendo stato nei principali ristoranti e senza aver visitato i produttori di riferimento, basta essere bravi smanettoni e avere magari la battuta pronta su Facebook. Tanto più vero in quanto alle aziende e agli chef, più che la critica, interessa la comunicazione della propria attività.
E’ possibile vivere una vita parallela, far finta di aver bevuto le bottiglie più rare e di conoscere tutti i piatti: invece di perdere giornate  in treno o in auto, basta stare seduti davanti ad un Pc.

Questa situazione è un cambiamento strutturale? Ossia la nostra sarà sempre più una conoscenza legata alle immagini, ai video, migliaia di piccoli ego che sgomitano e fanno le boccucce di galline nei reel per farsi notare? E’ finita l’epoca della intermediazione critico-giornalistica fra il fatto, la notizia, e il lettore, il cliente finale?

Sono domande difficili a cui non c’è risposta. Sappiamo per esempio con certezza che la perdita della scrittura è da sempre stato uno dei segnali di imbarbarbarimento della società che ha dato sfogo alle notizie false, dalla Donazione di Costantino sino al complotto ordito da Bill Gates, e che porta la gente a sostenere ragionevolmente che la Terra è piatta, che lo sbarco sulla Luna non c’è stato, etc etc.

Ma la guerra in atto con l’invasione russa dell’Ucraina ci dimostra invece quanto sia importante la presenza sul posto per accertare non dico la verità, quanto meno alcune verità. La velocità dell’informazione sui social media infatti nega l’approfondimento e favorisce la notizie false, rende più critico uno che non è stato mai ad un ristorante stellato di fronte ad uno che li ha visitati tutti ma che non ha la praticità con questi strumenti.
Un po’ come i video pornografici che ti fanno perdere il senso di un reale rapporto sessuale, anche lo stare sempre su internet ti fa perdere il senso reale del cibo e del vino. E se i primi fanno perdere alla fine la spinta sessuale, nel secondo caso si perde la molla della critica, ossia la curiosità del viaggio e dell’incontro perché tutto sembra già visto.
Esistono ormai vere e proprie patologie di dipendenza verso i social che dovrebbero essere strumenti e che invece ti trasformano in un protagonista di un infinito Truman Show quotidiano.

In poche parole, l’intermediazione della critica e del giornalismo avrà sempre una sua funzione primaria, a patto che riesca a modularsi sui nuovi strumenti di comunicazione senza per questo negare se stessi, mettendoci la faccia e riportando la narrazione alla prima regola del giornalismo: io parlo di ciò che ho visto. E, dunque, nel caso del food e del vino, di ciò che ho mangiato e bevuto.

Davide Paolini, Confesso che ho mangiato. Giunti

Questo sarà possibile però se alle spalle ci sono editori che invece di smarchettare credono nel mestiere come modello di business in quanto tale, ed è questa la vera difficoltà del momento. Perchè se tu sei un editore di gastronomia e parli solo delle aziende che si relazionano con i tuoi sponsor hai la stessa credibilità di chi fa finta di essere stato in un ristorante senza esserci mai entrato.

Infatti la differenza vera con il passato è che prima gli editori sostenevano le spese necessarie per dare autorevolezza e indipendenza a chi scriveva. Parliamo di un sistema strutturale, poi le marchette ci sono sempre state, ma non erano sistemiche. Ossia non era necessrio farle per poter scrivere, viceversa oggi è sempre più difficile scrivere (fatte le dovute eccezioni) senza subire le pressioni di sponsor diretti da manager dalla vista breve che ragionano in base allo scambio, qua la pezza e qua il sapone.

Quindi la sfida vera oggi, più che i giornalisti e i critici, riguarda gli editori che devono al tempo stesso garantire indipendenza e investire nei nuovi strumenti con intelligenza.
La mia tesi, in sostanza, è che i social non sono la causa della perdita dell’autonomia e della indipendenza di chi scrive, ma possono esserne l’effetto. Di per se, sono potenti strumenti in chi ha una sua credibilità professionale.
Il problema non è lo strumento, ma la cultura.
Ed è qui che torniamo al libro. Davide Paolini è sempre stato una figura laica nel mondo enogastronomico: per lui il tema del momento è che siamo in una fase di transizione in cui tutto è liquido, possiamo anche dire confuso. Basta vedere le tendenze gastronomiche come siano contrastanti e poco uniformate, tramontata l’epoca dell’ispe dixit francese e della furia iconoclasta degli spagnoli, anche il Vento del Nord sembra essere sempre più una refola dopo gli eventi Covid: in poche parole non esistono modelli in grado di essere punti di riferimento a cui aderire o demolire. La stessa fiducia liberista sulla globalizzazione è stata tragicamente messa in crisi.
Questo vale per la critica gastronomica, ma per qualsiasi campo del sapere umano la situazione è questa, almeno in Occidente.

Per Davide in questo vuoto si potrebbe inserire con forza la cucina italiana che ha ancora una sua forza ed è estremamente radicata, ossia una cucina che non esclude nulla, la versione gastronomica della Dieta Mediterranea. Ma è una scommessa più che una certezza, perchè, grazie a clamorosi errori e ritardi accumulati negli anni, a decidere il vino è Parker mentre a decider chi conta nella ristorazione è la Michelin.
Fatevi qualche domanda e datevi pure la rispsta che ritenete giusta.

2 Commenti

  1. Più che la critica, interessa la comunicazione della propria attività.Frase presa nel contesto ma quanta verità sopratutto tenendo presente la superficialità ed approssimazione con oggi cui si scrive nel mondo dell’enogastronomia.Davide,conosciuto in tempi non sospetti,ha sempre tenuto un profilo basso ma altissima professionalità e a mo di esempio voglio ricordare quanto da lui spesso ripetuto sulla ricchezza che poteva generare quel fenomeno che poi ,grazie anche alle strade della mozzarella, è diventato il formaggio simbolo della Campania.Ad maiora da FM

  2. La lettura, che è vita, è arte dell’incontro. Prima di iniziare a leggere il nuovo libro di Davide Paolini “ Confesso che ho mangiato”, per qualche caso del destino, ho ritenuto opportuno riprendere in mano un libro di qualche anno fa dell’immenso Gianni Mura “Non c’è gusto”.

    Nelle pagine iniziali del libro riporto quello che scriveva Gianni Mura: “Confesso che ho vissuto, che ho mangiato, che ho bevuto, che ho sbagliato”. Insieme alla lettura degli scritti e degli articoli di Davide Paolini, mi permetto di incoraggiare la rilettura degli articoli e degli scritti di Gianni Mura.

    PS: confesso che la mia lettura de Il Sole 24 della domenica iniziava dalle ultime pagine del Domenicale

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