Franco Manna: così abbiamo inventato la pizza napoletana nel mondo


Franco Manna

di Mariangela Barberisi

Biologo, imprenditore e con una sensibilità fuori dal comune che gli ha permesso negli anni di precorrere i tempi. Di chi parliamo? Franco
Manna, l’uomo che ha portato la pizza napoletana oltre i confini di Partenope.

Ci racconta come nasce questa idea?

«Più che di un’idea io parlo sempre di un’intuizione. Dopo aver conquistato tutti i campani ho pensato di trasferire una nostra
eccellenza a Milano in primo luogo».

Nel 1998 porta la pizza napoletana al nord della Penisola. Qual era il suo intento?

«In quegli anni, fuori Napoli, la pizza cambiava da regione a regione. Si chiamava Margherita ma non era la stessa che mangiavamo in Campania. Desideravo portare in giro per il mondo qualcosa che nessuno ancora aveva provato».

Cosa?

«Il valore e l’artigianalità del nostro piatto».

Ed è qui che rivoluziona l’approccio con i consumatori del nord Italia.

«Esatto. Prima quando parlavi con un ristoratore di una qualsiasi altra città italiana che non fosse campana, per difendere la bontà della sua
pizza diceva di avere il miglior pizzaiolo al mondo: il pizzaiolo di origine egiziana».

Ci spiega meglio?

«Sembra un concetto lontano anni luce ma prima era così. Avevamo un’eccellenza e nessuno fino a quel momento aveva pensato di
esportarla».

Poi cosa è cambiato?

«Ho deciso di portare tutta la filosofia, la nostra storia oltre i confini partenopei. Ho trasportato i valori e l’artigianalità della
pizza napoletana prima a Milano e poi nel resto del mondo».

Come ci è riuscito?

«All’inizio non è stato facile ma abbiamo realizzato un sistema efficiente: cinque prodotti associati a cinque fornitori».

La rivoluzione si basava su un sistema logistico perfetto?

«Si è così. La pizza napoletana non è uno stereotipo ma artigianalità e valori. Genuinità ed eccellenza. E’ una cosa seria».

Quali sono dunque le cinque L?

«Pomodoro, Fior di latte, Olio, Pasta e farina Caputo naturalmente. Vent’anni fa i prodotti non arrivavano a Milano o a New York. Con il nostro brand siamo riusciti ad abbattere tanti muri».

Ha dimostrato che la Campania e Napoli avevano risorse preziose da esportare.

«Grazie a questo sistema siamo stati i primi a portare la farina Caputo Oltreoceano. Così come tutti i nostri prodotti. I pomodori, i latticini, l’olio. Prima la mozzarella di bufala si assaggiava solo sui nostri territori. Oggi arrivano a Milano, così come a Londra o Sidney».

Dalla pizza alla cucina napoletana. Un altro passo verso il cambiamento?

«Si. Portando i nostri prodotti ovunque è stato poi naturale avviare un’altra filosofia. Le nostre eccellenze sono state la chiave del
successo e del riconoscimento della tipicità dei nostri piatti».

Da quel lontano 1998 cosa è cambiato?

«Sono stato a Londra per 50 Top Pizza, ho incontrato almeno dieci tra ristoratori e imprenditori che fanno pizza napoletana rispettando
l’artigianalità e i valori del nostro prodotto».

Come può esserne sicuro?

«Perchè abbiamo un disciplinare, perché abbiamo lavorato per anni con Pecoraro Scanio affinchè l’arte del pizzaiuolo fosse riconosciuta come Patrimonio Unesco, perché la maggior parte di coloro che fanno pizza in tutto il mondo è iscritto all’Associazione Verace Pizza Napoletana».

Cosa dobbiamo aspettarci dal futuro?

«Siamo saturi. Vede era prevedibile che i pizzaioli diventassero delle star. Prima c’erano i cuochi che sono poi diventati chef stellati. Una volta conquistato il massimo cosa hanno fatto? Hanno svuotato i piatti».

Pensa che i pizzaioli possano perdersi allo stesso modo?

«Ne sono certo. Sono tutti concentrati a diventare personaggi su Tik Tok piuttosto che preservare valori ed artigianalità di un prodotto che
già funziona così. La gente vuole sedersi e mangiare cose di qualità. Vedere, riconoscere gli ingredienti eccellenti sul disco di pasta e lo
stesso vale per la cucina».

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