Il cotechino irpino e la pezzente


il cotechino affumicato dei fratelli Freda

di Alberto Nigro

Il Carnevale in Irpinia è una cosa seria. Attraversare paesi come Paternopoli, Castelvetere o Montemarano nel periodo che va dal giovedì al martedì grasso significa immergersi in un mondo parallelo, capovolto.

Qualcosa di simile accade in cucina visto che tra i piatti tradizionali del periodo ci sono quelli a base di «pezzente». Si tratta di un insaccato prodotto con le parti meno nobili del maiale, quelle che volgarmente vengono definite frattaglie, mescolate a pezzi di carne e grasso. Un alimento che nella provincia di Avellino si consuma dalla notte dei tempi e che, nato per dare nutrimento alle famiglie più povere, è oggi ricercatissimo: è il vero re della tavola.
Mario Carrabs è uno storico macellaio di Gesualdo. Da 42 anni produce prelibatezze con un occhio costantemente rivolto alla tradizione e sul pezzente ha le idee molto chiare: «Partiamo da un presupposto: il pezzente non va confuso con il cotechino.

Il cotechino irpino

Pur muovendo da una base simile parliamo di prodotti che non possono essere nemmeno accostati». In effetti per preparare il cotechino è necessario bollire e tritare la cotenna, mescolarla alla carne e al grasso del maiale ed insaccarla in un budello. Una ricetta che, con i dovuti accorgimenti territoriali, soprattutto in fatto di speziatura e di tagli di carne scelti, accomuna buona parte dello Stivale, dall’Irpinia all’Emilia Romagna». La geografica gastronomica assegna il cotechino alle regioni del Nord, siprattutto all’Emilia Romagna, ma in realtà è una variabile presente ovunque ma in Irpinia è un vero oggetto di culto tanto è vero che lo preparano le migliori macellerie.
«L’impasto del pezzente è un po’ differente – spiega Carrabs – viene preparato con pezzi di lingua, cuore, polmone e milza – niente fegato – che si vanno ad unire a tagli di carne di suino piuttosto grassi: il guanciale, la spalla, la pancetta. Si chiama pezzente proprio perché si utilizzano le parti povere dell’animale, ma è un prodotto ricchissimo di sapore». Attenzione alle spezie. «Se per il cotechino possono bastare pepe e sale (ma in Emilia Romagna si fa largo uso di chiodi di garofano, finocchietto, peperoncino, noce moscata, cannella ed erbe aromatiche ndr.), per il pezzente ci vogliono l’aglio battuto e il peperone crusco».
I piatti preparati con questo insaccato sono davvero tanti. C’è chi ci arricchisce la pasta e fagioli, chi la zuppa di legumi e chi ci affianca diverse tipologie di verdura per la classica minestra maritata, ma a carnevale è il ragù a regnare incontrastato. Lo sa bene Valentina Martone, chef del ristorante Megaron di Paternopoli, che ha fatto della promozione della cucina tradizionale irpina una vera e propria missione.
«Mi piace tanto il pezzente – dice – perché è grasso e saporito e partecipa a molti piatti della tradizione. In queste settimane, però, pur apprezzandolo in ogni modo, lo preparo rigorosamente al ragù». I passaggi sono semplici.
«Basandomi sugli insegnamenti di mia nonna – afferma Martone – lo faccio soffriggere all’interno di un tegame di terracotta in un mix di sugna e olio extravergine d’oliva con un po’ di cipolla. Una volta rosolato a dovere ci aggiungo la passata di pomodoro e lascio pippiàre a lungo». Attenzione però, non si tratta di un ragù, ma di una salsa decisamente più veloce da preparare e il pomodoro resta brillante per bilanciare con la sua acidità il grasso del cotechino. Per il formato di pasta, Martone punta su mezzi ziti o candele, ma le scuole di pensiero sono tante e c’è chi non riesce a rinunciare alla pasta rigata o ai fusilli avellinesi.

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