Il Moscato di Baselice


Il boom piccolo borghese degli anni ’60 si chiama anche Moscato d’Asti, un modo per vivere nelle città inurbate l’atmosfera della festa vissuta nei paesi abbandonati. Un Moscato delicatino, per i gracili palati piemontesi, primo lampo della globalizzazione del gusto. Un Moscato industriale, perché prima faceva tanto chic bere quello che tutti, dal Trentino alla Sicilia, potevano finalmente comprare e bere.Sino agli anni ’80 i contadini hanno continuato a coltivare l’uva e a produrlo, rifletteva l’animo gentile dei meridionali rimasti aggrappati ai paesini della dorsale appenninica, spesso rifermentava in bottiglia e lo si beveva spumante nei giorni di festa o per sottolineare una ricorrenza. Poi è sempre stato più difficile trovarlo perché le aziende, con la eccezione della Val Calore di Castel San Lorenzo, non ci hanno mai creduto. E via tutti sui passiti di falanghina, fiano, greco, asprinio, aglianico dimenticando l’uva con cui è più naturale lavorare in questa direzione, il moscato.C’era questa storia negli occhi di Alfonso Iaccarino quando, a Verona, ha sibilato soddisfatto: «Vai a provare il Moscato di Baselice». Detto, fatto: vigne piantate su terreno argilloso a 600 metri, temperatura rigida d’inverno, fresca di estate, escursione termica, giusta dose di legno per sostenere la fermentazione e l’elevamento, poi la pazienza di aspettare un anno ed ecco la grande novità di questo Vinitaly, il Moscato di Baselice. Intensità e persistenza al naso sono scontate, in bocca abbiamo eleganza, morbidezza e pulizia dall’inizio sino alla fine, quando nel palato resta il frutto e non lo zucchero. Zingarella, questo il nome scelto dalla Masseria Parisi, per un prodotto che, con il Mea Culpa della Val Calore, segna finalmente una inversione di tendenza rispetto al pensiero unico del rosso che ha finito per banalizzarlo. La grande scuola della pasticceria napoletana e la tradizione dolciaria delle zone interne, pensiamo solo al torrone del Sannio e dell’Irpinia o ai biscotti al miele del Cilento, reclamano un vino dolce di stoffa capace di imporsi come fece la Falanghina all’inizio degli anni ’90. Forza Zingarella, datti da fare.