Lettera dell’ispettore Michelin, cinque anni… e un giorno dopo


E. Hopper, Night windows

E. Hopper, Night windows

di Fabrizio Scarpato

Anche Babette aveva il suo limite, ed era che non ne ero innamorato, non potevo innamorarmene.

Le raccontai della Svezia, riferii il messaggio e consegnai le formine per i pepparkaka come suo fratello mi aveva pregato di fare. Per Birgitta, c’era scritto. Ma per me era solo Babette, la donna più dolce che avessi mai incontrato. Se ne stava dietro il bancone e continuava a mettere a posto dei bicchieri, sempre gli stessi, praticamente spostandoli da un punto all’altro. Io parlavo e parlavo, cioè, insomma balbettavo frasi sconnesse, ché troppe cose non riesco a dirle tutte di fila. Così lei fece il giro del bancone, si sciolse i capelli e quando fu davanti a me, mi baciò. Fu strano, perché finimmo a letto come per inerzia, con la stessa passione di una seduta psicanalitica e la disinvoltura che si ostenta sul lettino del dentista. Facemmo l’amore in modo circospetto, ognuno seguendo il filo dei propri pensieri; in comune, forse, la sicurezza che non ci sarebbe stato futuro. «Ti voglio bene» le dissi. Per un attimo mi resi conto di aver detto una solenne cazzata, ma lei mi guardò, con quello sguardo disincantato che aveva quando mi portava il sidro al mattino, al mio tavolo. Ridemmo di brutto, e facemmo l’amore davvero, come liberati. E fu bello. Ma non abbastanza, ovviamente. Io non ero il principe azzurro e lei aveva già deciso di accettare l’offerta di Kripp e partire per Copenaghen, per quello che sarebbe diventato il suo ristorante con la stella. Anche lei aveva un prezzo, evidentemente. Altissimo, e lo meritava. Di Babette, così sempre in ordine, mi sono rimasti il ricordo dei capelli finalmente sciolti e sudati sul viso, e un orologio che segna le ore sull’immagine di un’insalata normanna: come dire che c’è sempre un tempo, per tutto. A volte basta aspettare, sempre che si abbia la forza, e l’umiltà, per farlo. Per qualche settimana ho tenuto aperto lo Chat qui Peche sul molo di Honfleur: eravamo io, la gigantografia in cartone di Chabal e mia sorella Annette. Facile indovinare chi beveva e chi lavorava. Annette e il suo bistrot, finalmente: eccone un’altra che sapeva a memoria dove voleva arrivare. Non ci somigliamo: io sono un giocatore di rugby, corro a zig zag guardando indietro per andare avanti. Mica gioco a golf, per dire. Io, nelle buche, mi ci vado a nascondere.

Ed eccomi davanti ai riflessi ambrati di un bicchiere di Calvados, mentre la notte avanza. Buffo constatare come molte delle donne che ho conosciuto, dopo di me abbiano tutte trovato una strada, la loro strada: Babette, Mariana, Geneviève, Nadine, la stessa Annette, anche Paulette magari… ”Michelin porta fortuna”, mi dico sarcastico mentre ingollo un bel sorso. E sorrido, pensando alla faccia che avrebbe fatto Chabal ascoltando cotanta cazzata prima di prendere a testate il muro della cella numero uno, nelle cantine della Gendarmerie. Mi manca, la cella numero uno. A pensarci bene non ho un posto preciso dove andare. La solitudine ha bisogno di momenti di compagnia, ma oggi non mi cerca nessuno, sono fuori mercato, per eccesso di ribasso. Riempio di nuovo il bicchiere col mio Pays d’Auge Vieille Réserve, ma questa volta mi colpisce un lampo rosso che lo attraversa all’improvviso: è la rossa che mi sfiora, e passando trascina appena l’indice laccato di smalto nero carbonio sull’orlo del mio tavolo. Ha un profumo indecente per un ristorante, persino per l’acido malico residuo del mio Calvados.Un minuto più tardi il nero delle sue unghie spiccava sulla ceramica della toilette, mischiandosi al rosso carminio del rossetto con cui le lucidavo le labbra, mentre la scopavo, abbarbicati al lavabo in stile neoclassico. Il rosso e il neoclassico mi si addicono, il nero sta bene su tutto. Siamo tornati ai rispettivi tavoli nei tempi compatibili con una sistemata al trucco: quanto bastava per non avvilirmi ulteriormente e mantenere, come sempre, la giusta distanza.

Smalto nero carbonio

Smalto nero carbonio

La biondina con la sigaretta deve essersi sentita trascurata, così prende a guardarmi con insistenza e comincia a disegnare nell’aria dei cerchi di fumo modulandoli con impercettibili movimenti delle labbra socchiuse, come gli occhi d’altronde. Mi è tornata fame e ordino una tarte Tatin. «Con vaniglia, ovviamente…». «No, cazzo, con pistacchio». Il cameriere deve essersela presa perchè a tradimento fa partire La Nuit di Adamo:

Et puis ton rire fend le noir

Et je ne sais plus où chercher

Quand tout se tait revient l’espoir

Et je me reprends à t’aimer 

La nuit, je deviens fou, je deviens fou

Adamo, La nuit

Adamo, La nuit

E sorride, ormai muovendosi sull’impalpabile confine che separa la stronzaggine dall’imbecillità. A quel punto mi girano i camemberts, e quando mi incazzo, sapendo di essere dalla parte della ragione, mi prende una specie di delirio di onnipotenza. Ora sono io che guardo gli altri: sono uscito allo scoperto. La musica gira lenta e incalzante, come il mio sguardo: finché la rossa non comincia a mostrare segni di cedimento, nella postura e nelle mutandine, forse rimaste fuori posto o probabilmente allentate nella concitazione di un’ora prima. La biondina invece continua a tubare col fumo. Ho lasciato fare, gustandomi il pistacchio, protetto nel mio angolo. Continuavo a fissarla con distacco: volevo si sentisse giudicata, finché anche lei non ha guardato altrove. Poi, con tutto quel fumo, l’aria s’era fatta irrespirabile, il giradischi ha preso a gracchiare e io me ne sono andato. Sulla porta il cameriere mi saluta con gli occhi bassi, tenendo un sacchetto di ghiaccio sul labbro inferiore. Aveva capito che il lavoro in sala prevede soprattutto discrezione, in altre parole che avrebbe dovuto farsi una padellata di cazzi suoi.

Non c’è film di Lelouch che tenga, stanotte. Anche il croissant delle quattro faceva schifo e laggiù le luci del porto di Le Havre sembrano spente, quasi non avessero più nulla da illuminare. Canticchio Adamo: se il giorno posso non pensarti… la notte… mi fa impazzir… l’italiano rende meglio il senso di solitudine e sgomento del buio rispetto al francese, dove la nuit ricorda magari solo un romanticismo da strapazzo, ricchi premi e cotillons. In qualche modo prendo tempo, davanti a un mare ammuffito, da quanto ormai mi appare scontato. “Gugou, mi porteresti un’ultima volta al mio paese?”: con mia madre non corre buon sangue, ma quando mi chiama Gugou finisco col detestarla. Però un altro paese e soprattutto un altro mare potrebbero farmi bene.In una finestra si accende la luce, qualcuno non dorme o si è svegliato per motivi suoi. Vite e luci nel buio di case tutte uguali. Tranne una, ora che ci penso: quella sul Vieux Port coi crisantemi sul davanzale. Ma chi cazzo è che mette i crisantemi sul davanzale della finestra?

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