L’Ispettore Michelin / Ira


Husky

Husky

di Fabrizio Scarpato

Abbiamo puntato ancora più a nord, fino alla fine di tutto. E’ venuto a cavallo di una motoslitta: mi ha fatto segno di sedermi dietro di lui, battendo col guanto sul sedile. Non avevo idea dove fossimo diretti, ma Kripp sembrava sereno e disteso, quasi come il cielo sul fare dell’alba di mezzogiorno, che appariva di un nitore esagerato, non saprei dire se argenteo o cristallino. C’è voluto molto poco perché mi sentissi quasi solo al mondo, noi due, il motore e la natura, che paziente e immobile ci stava a guardare. Poi ho sentito abbaiare e lì per lì ho avuto paura. «Lei ama gli animali, Michelin?». Credo di aver esitato un attimo di troppo. Già con il verbo amare ho da tempo un sacco di difficoltà, ma coniugarlo con gli animali mi crea un certo imbarazzo. No, non li amo. «Nemmeno io» disse lui leggendomi nel pensiero «però i miei cani sono talmente garbati che non me lo fanno pesare». E così dopo l’ultimo gruppo di abeti, si aprì una radura innevata dove scorrazzavano liberi un certo numero di siberian husky.

Kripp fece un fischio e molti cani lasciarono le baruffe e vennero verso di noi. Bellissimi, per la verità. Non potevo non considerare che anche qui lui era capobranco. «Loro sono veramente liberi» disse. «Quando sono scappato da Malmoe sono venuto a Gammelstad per gli husky, perchè avevo addosso una bella dose di aggressività da scaricare e volevo imparare a essere meno diffidente, ché il mondo forse non sempre accetta di esser costretto a rimirare il mio dimenticabile ombelico. Un husky è tutto questo, ma è intelligente e ci tiene alla sua indipendenza. Così quasi ogni giorno vengo qua e li osservo». Poi chiamò Bloom con un urlo e quello si avvicinò. «Alcuni di loro hanno occhi di diverso colore. Uno come Bloom mi ricorda che abbiamo sempre un’altra possibilità, un altro sguardo con cui guardare le cose, e persino noi stessi. Angeli e demoni, se vogliamo». Rise e mi guardò. Era la prima volta che lo guardavo bene di giorno, se così si può dire, ma c’era abbastanza luce per vedere che anche lui aveva un occhio azzurro e uno nocciola. Ne fui abbastanza turbato. Non quanto aver trovato sulla tavola, imbandita spartanamente, una bella bottiglia di sidro, il mio caro amato sidro, insieme a una cocotte rovente di cipolle, patate, pesce in salamoia, forse sarde, e tanta panna. Prima di ripartire, dopo un caffè e un’acquavite, Kripp sogghignando mi chiede: «Sa come si chiama questo piatto? La tentazione di Jansson». Per un attimo ho creduto di vedere un lampo luciferino, nei suoi occhi eterocromi.

Ingemar Stenmark

Ingemar Stenmark

Qui si cena alle 18, forse per noia, probabilmente per non eccedere nel bere, fosse anche l’ennesima fika e il centesimo caffè. Che poi rende nervosi. E quando l’ho visto ho subito pensato che Krippnick avesse fatto fika per tutto il pomeriggio. Il Fiskaren Katt era aperto solo per noi. Che poi eravamo tre: io, Kripp e un giornalista. Si chiamava Ingemar e, sebbene per mestiere vendesse frigoriferi a Uppsala, guarda caso aveva trascorsi da cronista sportivo amatoriale, ma non di sci, bensì di hockey su ghiaccio. Tuttavia era un grandissimo slalomista, con le parole, intendo. A tempo perso si interessava anche di gastronomia per il giornale su cui scriveva per diletto, con successo c’è da dire, tanto da aprire un blog di confronto coi lettori che aveva in breve raggiunto risultati molto lusinghieri. Il suo nome circolava quindi con grande insistenza sui social network, tanto che gli venne offerta più di una collaborazione sulle guide in qualità di critico gastronomico, ruolo cui si dedicava principalmente il martedì e il mercoledì, perché i fine settimana erano assorbiti dagli eventi che si era casualmente trovato ad organizzare, per amicizia e per via del buon riscontro di alcuni libri che aveva scritto, grazie ad alcune sue seguitissime, seppur accidentali, apparizioni televisive. Quel mondo lo affascinava e cercava di coglierne gli aspetti anche più squisitamente estetici, attraverso quella che era la sua vera passione, la fotografia: tagli di luce e temerarie escursioni della profondità di campo gli erano valse un incondizionato seguito di affezionati e attenti estimatori anche tra gli addetti ai lavori, così ammaliati dalla sua verve innovativa e dalla bonaria familiarità della sua scrittura, da affidargli, o addirittura pretendere la sua consulenza per la promozione e la visibilità della loro immagine, oppure della loro azienda o del loro ristorante: i medesimi che lui, casualmente ma irreprensibilmente, prima o poi si sarebbe trovato a giudicare. Gli mancava di fare il cuoco, ma certamente sarebbe riuscito a spargere eleganza anche nella funambolica impresa di recensire se stesso. Blogger, consulente, critico, fotografo, giornalista, organizzatore e scrittore: sette attività, rigorosamente in ordine alfabetico, racchiuse in una sola persona. Che però mangiava per sette.

Successe che Magnus voleva presentarci i piatti del nuovo menu e che Kripp aveva deciso platealmente di mettersi di traverso, provocandolo. Ogni piatto che arrivava in tavola pretendeva di assaggiarlo lui per primo, quasi a voler dare il proprio necessario benestare alla consumazione, e ogni volta erano grugniti, risate e insopportabili sbeffeggiamenti, della serie manca questo, troppo di quello, questo l’ho inventato io, quello me l’hai copiato. Roba così, carinerie, diciamo. Si percepiva insomma una certa tensione, acuita dal fatto che con una scelta decisamente stramba, Magnus aveva messo in sottofondo i Led Zeppelin che scartavetravano Whole Lotta Love. L’incalzare del ritmo faceva il paio con l’asfissiante comportamento di Scrackalbott, tanto da costringere Ingemar ad intervenire con una locuzione che spesso anteponeva ai suoi discorsi contorti: « Io capisco… perché anch’io sono un padre di famiglia, un buon padre devo dire, di tre meravigliosi figliuoli…». Quando Kripp gli ruttò in faccia non lo disse più. Ovviamente si beveva Champagne, un Pinot Meunier in purezza che a fatica reggeva i Led Zeppelin, ma che ti metteva comodo con un pacchetto di pop corn, qualche nocciolina e una manciata di arachidi ad assistere a quel film western che si srotolava sotto i miei occhi. E devo dire che nemmeno Jérôme Prévost avrebbe mai pensato che il suo La Closerie Les Béguines, dopo la buccia e la polpa di una succosa susina, avrebbe dato la netta e appagante sensazione di poterne succhiare avidamente e lungamente anche il nocciolo: un modo per dire che eravamo al culmine della tensione, il momento in cui, inopinatamente, Magnus si sarebbe presentato al tavolo con il suo Cuore di Alce Innamorato.

Persino Chabal mi strattonò dalla tasca dei pantaloni per consigliarmi di andarcene via. Magnus cominciò a tagliare il cuore, caldissimo e tenerissimo, presentato semplicemente con patate, camemori e salsa di mirtilli, proprio nel momento in cui John Bonham sdrumava sul tappeto compulsivo del suo charleston. Sergio Leone in quel film con tre personaggi, proprio come noi lì a quel tavolo (tutto stava a trovare chi faceva il buono…), non avrebbe saputo fare meglio, e non servì a nulla che Ingemar, colto il momento critico, avesse sfoderato il suo cavallo di battaglia, vale a dire il racconto delle virtù culinarie della splendidissima moglie: proprio nel momento in cui Jimmy Page staccava il suo assolo da sangue alla testa alla fine di quella tellurica rullata sincopata, con altrettanto selvaggio trasporto, Kripp, in un sol balzo, si scaraventò oltre il tavolo, travolgendo piatti e bicchieri, e tirandosi dietro tutto il tovagliato, nel tentativo di agguantare per la gola l’ammutolito Magnus: e ci riuscì, così che questi venne travolto, per trovarsi già in debito di ossigeno non appena toccato terra.

Jérome Prévost, La Closerie Les Béguines

Jérome Prévost, La Closerie Les Béguines

Ora, io di botte ne ho date e ne ho prese, ma, cavoli, vi dico che Magnus subiva passivamente. Stava lì a prenderle, insomma. Senza reagire. Volutamente. Al quinto sganassone, però, evidentemente decise che poteva bastare: di scatto bloccò il braccio del suo aggressore, si divincolò con una mossa repentina e appioppò un terribile cazzotto sul naso di Kripp, e poi un gancio sinistro, in pieno sulla bocca. Fu lì che il povero Scrackalbott si rese conto di avere perso: non saprei dire cosa, ma aveva perso. Così, sanguinante, si rimise in piedi e lentamente uscì dal locale, spogliandosi via via dei vestiti, imbrattandosi di sangue ovunque, e arrivando nudo tra la neve. Prese a battersi il petto e a urlare cose incomprensibili, sotto una nevicata sporca, pesante, insostenibile. L’urlo agghiacciante di Robert Plant lo colse sfinito e fradicio, ma ebbe la forza disperata di urlare a squarciagola a sua volta «woman you need… loooove». E mentre ripartiva implacabile il riff di chitarra, Ingrid, proprio lei, uscì dalla cucina, e lo raggiunse, lo coprì con una coperta e lo abbracciò, asciugandogli il sangue dal naso e baciandolo ripetutamente. Io, in quel preciso istante, non avrei saputo dire se Kripp piangeva o se invece rideva dal profondo del cuore.

 

Venerdì

Led Zeppelin, Whole Lotta Love, 1969

Jérôme Prévost, La Closerie Les Béguines, Blanc de Noirs, Extra Brut