Matteo Lorito nuovo Rettore dell’Università Federico II di Napoli. Cosa vuol dire, politicamente e culturalmente parlando, la sua vittoria?


Matteo Lorito, Andrea Sinigaglia con Luciano Pignataro a LSDM 2019

Matteo Lorito, Andrea Sinigaglia (Alma) con Luciano Pignataro a LSDM 2019

Matteo Lorito, Ordinario di Patologia Vegetale e di Biotecnologie Fitopatologiche e  Direttore del Dipartimento di Agraria, è il nuovo Rettore dell’Università Federico II di Napoli. Si tratta della più importante istituzione culturale del Centro Sud, una delle più importanti a livello europeo con i suoi quasi 3000 tra professori e ricercatori, 90 mila studenti, 26 dipartimenti e sedi a Portici, Avellino e Benevento.
Un Ateneo che soffre i problemi logistici della città ma che ne è al tempo stesso un grande polmone culturale e scientifico.
Si sono date alcune chiavi di lettura della vittoria, sofferta, di Matteo Lorito rispetto al suo competitor Luigi Califano che si è realizzata con una doppia votazione in quanto la prima era finita quasi in parità (1262 voti a 1261 senza raggiungere il quorum).
La prima, più banale, è che Lorito fosse un candidato di area governativa, e che dunque l’eterno scontro privo di legittimazione reciproca fra destra e sinistra avesse trovato una articolazione proprio nell’Ateneo Federiciano.
Ma questo non ha alcun senso partitico, soprattutto nella logica accademica che ha cifre di comportamento autonome.

La seconda è che si è trattato di uno scontro tra una visione tradizionale dell’Università rappresentata da Califano, e dunque torniamo all’emisfero culturale, non partitico, della destra rispetto a una visione più moderna della sinistra. Questo secondo il professore Roberto Serpieri, Ordinario di Sociologia dell’Educazione, avrebbe avuto un riverbero negli stili dei due candidati : «Se si considera, quindi, la sfida che queste leadership rappresentano, abbiamo una sorta di contrapposizione: da un lato, un minore interesse a formare o tras-formare gli stessi fini istituzionali, ma in una logica conservativa che cerca di fondare il consenso attraverso una ‘simpatica’ negoziazione di mezzi. Dall’altro, una condivisione degli obiettivi e volta alla ‘mobilitazione’ collettiva per la tras-formazione degli stessi fini in modo innovativo. Ecco questa la vera natura della posta in gioco per la leadership della Federico II».

Questa lettura inquadra sicuramente la cornice culturale e comportamentale ma non va direttamente fino in fondo, secondo noi, al cuore del problema.
Perchè la verità di questo scontro è in qualche misura inconfessabile e risiede nella perenne e storica sottovalutazione del ceto intellettuale e politico napoletano (e in grandissima parte anche italiano) del mondo dell’Agricoltura nel suo complesso e la sua sottodimensione istituzionale di cui ha sempre sofferto.

Le radici di questo comportamento sono due. Una di naturale globale, l’altra peculiare di Napoli.
La prima è che le grandi ideologie che hanno dominato nel XIX e XX secolo, cattolicesimo popolare, comunismo, socialismo, fascismo e liberismo, che hanno strascichi nel primo millennio sia pure in varie altre forme, sono tutte di natura urbana nate in città per chi abita in città e questo modo di pensare si è accentuato in Italia a partire dalla fuga dalla terra e dalla campagna iniziata negli anni ’50 verso la città e il lavoro in fabbrica, visto come una liberazione rispetto alla fatica e alla miseria disumana della vita contadina.
Abbiamo avuto pensatori che hanno studiato la questione agraria (Emilio Sereni su tutti), ma alla fine ogni pulsione verso la modernizzazione era vista come un adeguamento comportamentale e produttivo del comparto agricolo a quello industriale classico di città.
Negli anni ’70 i giovani contadini che accedevano all’università grazie ai sacrifici dei loro genitori volavano verso Medicina, Ingegneria, Legge, Sociologia. Pochi, pochissimi, sceglievano Agraria.
La indifferenza dei nostri ceti intellettuali e politici verso il mondo della terra è visibile in ogni dove, dal fatto che in sede europea abbiamo solo da poco iniziato a difendere i nostri interessi, agli spazi nulli e ristretti che il mondo agricolo ha nelle pagine dei giornali e in Tv (dove è approdato come gastronomia e trekking).

Napoli accentua questo tratto italiano perchè la cultura dei propri ceti intellettuali e anche popolari è intimamente cittadina in quanto sedimentata in oltre tre secoli in cui la città era già città alla fine del ‘600, la più grande solo dopo Parigi, prima in Italia ancora all’inizio del ‘900 e perchè il suo tessuto metropolitano, a differenza di quanto avviene in quasi tutte le altre regioni ad eccezione del Lazio, non è controbilanciato da una forza propulsiva di altri capoluoghi realmente antagonisti sul piano culturale ed economico. Avellino, Benevento, Caserta e Salerno insieme fanno un terzo degli abitanti del capoluogo regionale. Il Regno delle Due Sicilie continentale alla fine è come un polpo con una grande testa con esili tentacoli e non ha neanche la dicotomia siciliana fra Palermo e Catania.

Tutto questo ha portato i ceti dirigenti napoletani di ogni istituzione a dividere il mondo in due grandezze, i napoletani e ‘a cafùnera, ossia chi abita in città e chi fuori dalla città. ‘O Cafone a Napoli è anche colui che non si sa comportare civilmente ed è un po’ rozzo, ma è sostanzialmente sinonimo di contadino, campagnolo. E il termine non è necessariamente sempre dispregiativo, ‘o pane cafone o le salsicce paesane sono per antonomasia roba buona da mangiare. Una sorta di Slow Food ante litteram insomma.

Dunque l’indifferenza verso l’aspetto rurale a Napoli non è neanche politica, è antropologica, collettiva, trasversale nei ceti sociali. La stessa aristocrazia ha sputtanato nei secoli la propria rendita fondiaria trasferendola nella costruzione di palazzi stupendi con i portoni altissimi che consentissero il passaggio delle carrozze per vivere in città non curandosi dei propri possedimenti.

Ma torniamo in media res. La vittoria di Matteo Lorito, direttore del Dipartimento di Agraria a Portici, è da questo punto di vista una rivoluzione culturale senza precedenti. Il nuovo Rettore ha una formazione scientifica internazionale, una visione interdisciplinare del sapere di stampo anglosassone, il Dipartimento di Agraria in questi anni ha formato un ceto docente di prim’ordine capace a sua volta di formare centinaia di giovani agronomi e operatori del settore che hanno rimodernato le tecniche agricole. In viticultura si è creato il Corso di Enologia con una propria sede ad Avellino e per la prima volta i giovani non devono andare al Nord per studiare, potendo avere a due passi da casa una formazione molto più adeguata agli standard internazionali.
Ed è sempre a Portici che è nato il primo Corso di Gastronomia Mediterranea che dà finalmente una risposta pubblica in un campo sinora occupato solo dai privati.

Senza nulla togliere alla eccellenza di altre discipline, per la prima volta nel Rettorato siede uno che ha visto di persona vigne, coltivazioni, campagna e non solo aule di tribunale, sale operatorie, compassi e progetti. Si tratta dunque di una rivoluzione copernicana senza precedenti nelle premesse (poi vedremo se confermata quando passeremo aristotelicamente dalla potenza all’atto) fondamentale in una regione come la Campania dove l’unica cosa che davvero funziona, oltre al turismo, è l’agricoltura con la zootecnia, e dove servono giovani formati in grado di garantire alta qualità nelle pianure di Caserta e del Vesuvio (l’ex Terra di Lavoro borbonica) e nella Piana del Sele, come pure la biodiversità dell’Alto casertano, dell’Irpinia, del Sannio e del Cilento.

Cultura e agricoltura a Napoli sono ancora un ossimoro, un paradosso se andiamo poi a vedere le statistiche dell’export e della formazione del pil regionale. Basti pensare che è dai tempi di Bassolino che non esiste un assessore al ramo alla Regione, tanto per dirne una.

Dunque, se le cose contengono un simbolismo, l’elezione di Matteo Lorito a Rettore dell’Univesità di Napoli è il risultato di un mondo ritenuto antico extra moenia che è cresciuto in maniera molto più veloce e moderna di altri negli ultimi dieci anni. E’ da questa crescita che è arrivata l’energia vitalistica di una elezione che, pur tenendo conto, ovviamente, dell’apparentamento e delle logiche interne accademiche, ha ribaltato le previsioni.

Ora non resta che augurarsi che la presa, pacifica, del Palazzo d’Inverno, non diventi Cremlino.
Ma questo sta alla reponsabilità di chi ha vinto e alla squadra che saprà formare.
Intanto noi siamo molto contenti che sia andata così.