Montevetrano, storica verticale 2004, 2003 e 2001


Il rapporto tra il vino di Silvia Imparato e la regione è stato molto ben spiegato dalla giornalista-vignaiola Manuela Piancastelli durante la verticale guidata in amicizia da me e da Marco Sabellico al Salotto del Vino di Terravecchia: <Noi produttori di vitigni autoctoni abbiamo trovato la strada spianata nel presentarci perché la Campania del vino è conosciuta ovunque nel mondo proprio grazie al Montevetrano>. Paradossi del mondo della comunicazione e del comercio dunque: in questa disputa ideologicamente tutta italiana tra autoctoni e internazionali, si dimentica spesso il contesto in cui parte un’azienda e la storia che produce, il vino può piacere o meno, lo stile essere apprezzato o attaccato, ma sicuramente quindici anni fa era luogo comune che in Campania e nel Sud non fosse possibile fare buoni rossi. Non dico che non c’erano, come ha dimostrato la verticale di Mastroberardino a Paestum, semplicemente non erano comunicati all’esterno. Silvia ha iniziato quasi per gioco a ridosso delle colline di Salerno, una zona buona ma, come ripete spesso anche Bruno De Conciliis, assolutamente priva di tradizione commerciale. Quando non c’è commercio non c’è terroir, Taurasi esiste perché lo ha promosso con lungimiranza Mastroberardino, Montalcino grazie a Biondi Santi, l’Aglianico del Vulture per Paternoster, eccetera. Nelle vigne piantate sul suolo grasso e vulcanico di queste colline i contadini si stordivano, e lo fanno ancora, con merlot, sangiovese, montepulciano, barbera e quant’altro gli aveva consigliato di mettere l’ispettorato agrario per aumentare le rese. Un mio amico, tra i primi sommelier della Campania, nel 1991 decise di piantare cabernet vicino al sangiovese introdotto dal padre, giusto per inquadrare bene il periodo così lontano e così vicino. Io penso che la scelta di un vitigno sia un problema di cultura: chi annusa l’aria si butta, chi conosce il territorio ci pensa e fa la scelta giusta, Spike Lee: cosa di più bello di un Chardonnay di Lageder del 1998? Ma sul Vesuvio avrebbe senso?
Ma non è solo il contesto territoriale l’elemento da cui partire per una valutazione storica: nel corso di quindici vendemmie il Montevetrano è stato costantemente al top di tutte le guide nazionali e internazionali, si è rivelato essere un prodotto assolutamente affidabile e costante, una chicca per appassionati che resta in vetta ormai dall’alto delle sue 30.000 bottiglie vedute a circa 30 euro in uscita dall’azienda, un prezzo da affare quando si entra nella categoria dei top wine. Silvia insomma ha dimostrato di non essere figlia della filosofia del mordi e fuggi che ha distrutto alcune belle imprese campane, ma di essere saldamente radicata ai valori della terra e della campagna in cui giocava da bambina.
Naturalmente i nostri padri latini non sbagliavano quando dicevano <nemo profeta in patria>. Nella sua provincia il Montevetrano è diventato importante solo di recente, quando cioé la borghesia locale ha capito che faceva chic stappare una sua bottiglia non meno di un rosso francese. Ma questo è un altro discorso, fatto sta che quella di Terravecchia è stata la prima verticale pubblica che si è tenuta in Campania di Montevetrano organizzata molto bene dall’Ais Salerno presieduto da Simone de Nicola. In passato ne abbiamo fatte molte coperte, inserendo pirati omologabili come ad esempio il Guado al Tasso e il rosso di san Cipriano è sempre salito sul podio, il 1998 si conferma tra i migliori in assoluto mentre il 1994, l’unico a non aver avuto i Tre bicchieri, è cresciuto alla grande.
2004
Andrea D’Ambra presente alla degustazione lo ha definito <l’outsider>, Nando Papa di Palazzo Sasso ne ha magnificato l’abbinabilità con i piatti di carne di Pino Lavarra. Un rosso ancora molto giovane, il naso è intenso e persistente, molto complesso, varia dalla frutta ben maturata al cacao, note balsamiche, cannella, spezie. In bocca c’è un perfetto equilibrio tra la mineralità e la freschezza del suolo e la morbidezza dei vitigni, un bel vino, insomma, che rivela l’annata non facile soprattutto nella struttura leggermente inferiore alle precedenti. Il finale è molto pulito, oserei dire non da cabernet, probabilmente contribuisce la presenza dell’aglianico in piccola percentuale ad alleggerire l’opulenza e la rotondità dei due vitigni internazionali. Insomma, un vino di gusto moderno al naso, riccco di carattere e tipicità in bocca dove ha sempre una marcia in più rispetto ai suoi omologhi italiani: suolo e sole fanno sempre la differenza.
2003
Siamo sempre ad alti livelli ma confesso che di tutte le annate è quello che in questo momento amo di meno. L’avrete capito, la 2003 è un’annata che proprio non sopporto, la prontezza dei vini toglie loro mistero sul futuro, l’eccessiva potenza va a discapito dell’eleganza, il frutto troppo pieno mi stanca. Sinora solo il Rotondo di Paternoster mi potrebbe ingannare sulla vendemmia. Il Montevetrano 2003, diciamolo pure, è soprattutto un inno alla sapienza di Riccardo Cotarella, capace di difendere strenuamente quel poco di freschezza regalato dall’andamento climatico torrido e senza escursioni termiche, di conservarlo sino in fondo, sino al finale della beva. La differenza è che non resta nel ricordo, quando scende giù sparisce dalla testa, non è il marker fondamentale. Sono curioso di leggere il 2003 nel corso degli anni per vedere cosa succede.
2001
Direi che ha raggiunto la classicità tipica del Montevetrano. Il colore granato prende il posto del rubino e per conservarlo in eterno, un naso ricco e complesso a cui dopo il primo cenno di frutta subentrano un po’ di spezie, torna il tabacco, il caffé, il cacao, addirittura un pizzico di cuoio. In bocca il tempo ha fatto il suo lavoro, si avverte la morbidezza imposta dagli anni e non più dall’enologo, va avanti spedito in maniera piena e autorevole, un rosso con lo scheletro robusto, di lunghissima durata. Insomma, un classico.r