Pomigliano d’Arco (Na), Biagio Palmese


La papaccella napoletana e dintorni…


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Per capire come stia cambiando la percezione delle cose in Campania bisogna forse partire dalle papaccelle di Pomigliano d’Arco.

Nell’unica grande enclave di cultura operaia classica, di mentalità e serietà lombardo-piemontese per intenderci, dove non esiste camorra ma una forte cultura del lavoro e dove la sinistra ha il suo radicamento tradizionale e consolidato grazie alla tradizione industriale che nella Fiat e nell’Alenia il suo fulcro storico, spunta fuori questa azienda nata quattro anni fa diventata il simbolo della rinascita agricola del territorio insieme ad altre realtà.

Biagio Palmese è un giovane di 29 anni, la tradizione di famiglia è quella di coltivare un po’ di terra, appena un ettaro, lui ha studiato a Portici e si è laureato in Scienza dell’Alimentazione ampliando la proprietà sino a 27 ettari, che alle falde del Vesuvio corrispondono ad un’azienda di 400 ettari in Argentina. Biagio ha iniziato a lavorare la qualità tutelando alcune delle biodiversità tipiche dell’areale vulcanico come il fagiolo a formella, simile ad un bottone, inserito nel luglio di quest’anno nell’elenco dei prodotti agroalimentari tradizionali della regione Campania. E, ancora, il mais a spogna bianca, il peperone papaccella napoletana dalla buccia molto resistente, tipico nelle insalate di rinforzo o sfritto in padella con la carne di maiale, divenuto presidio Slow Food seguito da Vito Trotta. Chiudiamo ricordando la torzella, particolare broccolo ripreso nell’ambito del programma per il recupero e la valorizzazione dell’immenso germoplasma orticolo campano promosso dall’assessorato all’Agricoltura, e la zucca lunga di Napoli molto diffusa nel Centro Sud. Ma non basta, confermando la vocazione campana alla trasformazione del fresco, primo segnale di un commercio più evoluto in passato rispetto alle altre regioni meridionali, Biagio ha iniziato a produrre confetture con le papaccelle, con la zucca e i pomodori del piennolo del Vesuvio. Vasetti da spendere sul pane cafone di San Sebastiano o sui pecorini irpini e sanniti, subito adottati a Bra e dall’alta ristorazione che regalano ulteriore valore aggiunto ad una impresa che, a pieno regime, vede ormai la presenza di almeno dodici addetti. Ecco allora una storia bella del Sud, il vino ha tracciato il medoto, ha sicuramente più fascino di una papaccella, ma il reddito per i giovani intelligenti può venire soprattutto da prodotti tipici di territorio curati nei dettagli e commercializzati in maniera moderna. se avesse dovuto inseguire i mercati locali probabilmente Biagio avrebbe desistito, invece collegandosi alla comunità nazionale di gourmet e di intenditori ha trovato subito uno sbocco commerciale soddisfacente e remunerativo. Servono, come sempre, passione e cultura: quanti giovani restando a casa e curando gli orti di famiglia potrebbero evitare l’umiliazione di pietire elemosina nelle segreterie politiche o di impugnare una pistola per sentirsi realizzati? Così è dunque la storia, la mia grande Pomigliano d’Arco dei Zezi, della Nuova Compagnia e delle Nacchere Rossa si lucida il pelo e sale alla ribalta con le papaccelle! Già, perchè in fondo una 500 Fiat si può costruire ovunque nel mondo, ma il gusto dei peperoni piantati nel suolo nero vesuviano è unico. Il nodo, vedete, è tutto qui.