Ritratti Bianca Mucciolo


Bianca Mucciolo

di Francesco Costantino

La cucina, per alcuni, è mestiere. Per altri, spettacolo.

Per Bianca Mucciolo è carne e terra, radici e memoria. Nata nel 1991, figlia di allevatori, ha respirato il Cilento fin da bambina. Oggi guida il ristorante di famiglia La Rosa Bianca ad Aquara e porta la sua voce anche al boutique hotel Palazzo Gentilcore, a Castellabate.

Non cucina per stupire. Cucina per raccontare chi è e da dove viene. Per questo la Campania istituzionale la vuole come volto quando c’è da rappresentare il territorio altrove. Perché Bianca non indossa maschere. Porta con sé erbe spontanee, grani antichi, formaggi di capra, e la certezza che l’autenticità non ha bisogno di filtri.

L’ho incontrata per parlare di vita, di scelte e di cucina. Ecco cosa mi ha raccontato.

Bianca Mucciolo

Come ti presenteresti in poche parole?

Bianca Mucciolo: Sono nata nel 1991. Sono figlia di allevatori e porto avanti con la mia famiglia l’azienda che i miei genitori hanno fondato nei primi anni ’90. Amo la natura in tutte le sue forme e oggi sono alla guida del nostro ristorante La Rosa Bianca, oltre a essere chef al Palazzo Gentilcore.

Quando e come è nata la tua passione per la cucina?

B.M.: Prima della cucina, è arrivata la terra. Ho visto crescere materie prime e allevamenti. Stare in cucina è stato il passo naturale successivo: cucinare ciò che avevo visto nascere.

Quali sono state le tappe decisive della tua formazione?

B.M.: La più dura è stata rimanere quasi sola dopo la perdita di mio padre. Ho dovuto investire tutto su me stessa e crescere in fretta. Poi c’è stato il secondo diploma in agraria: mi ha avvicinata ancora di più alle erbe e all’orto che curo personalmente.

C’è stato un incontro o un’esperienza che ha segnato un punto di svolta?

B.M.: La morte di mio padre. Da “aiutante” sono diventata imprenditrice. Il gioco è diventato serio.

E poi l’incontro con Chiara Fontana, una persona che ha contato molto per me.

Che significato ha per te il talento in cucina?

B.M.: Talento è creatività, ma senza materia prima non serve a nulla. La selezione è tutto.

Come definiresti la tua filosofia professionale?

B.M.: Viscerale. Intima. Affondo le mani nella terra, nelle pietre, nei minerali. Le mie emozioni guidano la tecnica. Leggo sempre Petrini, studio Keys. La mia cucina nasce così.

Quali sono le sfide quotidiane più stimolanti?

B.M.: Ogni piatto è un esame. Ogni piatto è una dedica a chi si siede alla mia tavola. Non c’è margine di superficialità.

Dove ti vedi tra 5 anni?

B.M.: Mi vedo felice, al mio posto. Magari in giro per il mondo a portare la mia cucina. E un piccolo sogno? Finire a Geo&Geo.

In che direzione sta andando la ristorazione?

B.M.: A volte mi intristisce. Ho paura dell’omologazione. Ma credo che la cucina rifletta sempre i sentimenti di chi la pratica.

Un aneddoto che non hai mai raccontato?

B.M.: Mi sono innamorata.

Un ingrediente che senti tuo?

B.M.: Il formaggio di capra. Dentro quel latte c’è la mia vita intera.

Il miglior consiglio ricevuto?

B.M.: “Non avere paura. Se lavori bene e con umiltà, il tuo sole è dietro quelle foglie.” — Mio padre.

Hai un rituale che ti accompagna ogni giorno?

B.M.: Rinfrescare il lievito madre. È una piccola cerimonia quotidiana.

Se non facessi questo mestiere?

B.M.: Non saprei. Da bambina sognavo di fare l’archeologa. Forse lo sogno ancora.

Un messaggio ai giovani che vogliono intraprendere questo cammino?

B.M.: Amate profondamente le materie prime. Costruite passo dopo passo. E abbiate fiducia in voi stessi.

Colonna sonora consigliata mentre si legge questa intervista?

B.M.: Un disco di Fabrizio De André. Crudo, poetico, vero. Come la vita e come la cucina.

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