Una società appiedata


Dopo un traffico impazzito, con tir bloccati sulla Marina, accessi autostradali chiusi, Fuorigrotta in tilt per le code a una pompa di benzina, la città, esausta dal suono dei clacson, ha chiuso bruscamente bottega verso le nove di sera coricandosi in un silenzio spettrale. Già, perché le emergenze mettono sempre in tilt prima i grandi centri metropolitani dove si consuma, poi, come un’onda a cerchi concentrici sull’acqua, tocca i paesi e i villaggi sino alle contrade più sperdute dove l’austerità etica risente fisicamente meno delle privazioni. E oggi non si ricomincia: no. La protesta dei trasportatori, la stessa categoria che scioperò in questo modo contro Allende aprendo la strada al regime criminale di Pinochet, ci costringe a fare i conti con un aspetto ormai quasi dimenticato: le risorse di cui disponiamo non sono infinite. Chi era giovane negli anni ’70 ricorda le domeniche a piedi, chi negli anni ’40 le difficoltà nel Dopoguerra. Eppure qui momenti così difficili erano vissuti con una consapevolezza collettiva quasi allegra, la semplice gioia di essere vivi, di cui oggi la nostra società, dopata dal consumismo esasperato, è completamente priva. Oggi siamo infatti soli a dover fronteggiare questa nuova crisi, soli a fare i conti con i problemi che affliggono la maggior parte degli uomini sulla Terra: non è scontato girare un rubinetto e bere, trovare sempre quello che si vuole al supermercato, poter girare con la propria auto senza limitazioni, premere un pulsante e avere luce, accendere un pc e collegarsi. Lo sciopero di questa categoria, che considera le strade pagate con i soldi di tutti come un fatto privato, in qualche modo ci riporta a quel senso della misura ormai completamente perso anche grazie ad una delle televisioni più stupide del mondo che ci fa considerare il nostro paese allo stesso modo in cui lo vedono i nostri vicini albanesi: lustrini, belle donne e fustacchiotti, auto, oggetti di lusso, liti di condominio, storie inventate per fare audience e una vita leggera. Salvo risvegliarci bruscamente. Lo sciopero di questa categoria, i cui costi irrazionali pesano sulle materie prime e determinano l’inflazione, scrosta improvvisamente le cazzate in cui siamo immersi e ci riporta ad antiche abitudini, come fare semplicemente i conti con la scorta di benzina e mettersi d’accordo con i colleghi per i turni, usare i mezzi pubblici e accorgersi così che il nostro sistema è ben lontano dagli standard europei perché solo da noi esistono i ricorsi al Tar capaci di bloccare opere come l’Alta Velocità.
Lo sciopero di questa categoria abituata a schiacciare gli automobilisti e i pedoni come le mosche e a proseguire incurante, insomma, svela la debolezza di un sistema piegato in soli due giorni da una minoranza violenta, la fragilità di una società senza principi che si crede invece inesauribile e invincibile, l’incapacità pluridecennale di un ceto politico in cui non c’è studio e selezione della classe dirigente che non sia quella di mettere soldi nel piatto per comprare candidature e collegi. Una marmellata senza distinzione in cui non c’è neanche più antagonismo.
Cosa c’entra con il vino? Beh, quando si scrive di viticoltura, di agricoltura e agroalimentare in genere, è sempre bene tenere conto del contesto generale invece di avere un atteggiamento figlio del consumismo individualistico che considera la bottiglia e non il produttore, il produttore e non il territorio. Sarà un caso che nel 2001 non è nata nessuna nuova azienda? Forse no, visto che quell’anno ci fu l’attacco a New York. Credo che sia necessaria, nel nostro piccolo, un’etica della responsabilità dissolta anch’essa negli ultimi anni in una grammatica in cui si usa <io> e non più <noi> per non fare appunto i conti con tutta la filiera, composta da più fasce di mercato, più filosofie produttive, diverse storie che si intrecciano, tutte degne di essere semplicemente raccontate e non irrise.