Vizzari: se lo Chateubriand fosse il migliore in Francia, allora il Noma sarebbe il primo al mondo


Rene Redzepi

Due pagine di Enzo Vizzari, il responsabile delle Guide Espresso, sul settimanale da qualche ora in edicola dedicate alla visita al Noma di Redzepi.
Una recensione entusiasta, l’ennesima prova di scrittura di una critica laica e sobria, dove il protagonista è il recensito e non il recensore che vi invito a leggere.

Quello che è interessante è il giudizio complessivo sul fenomeno la cucina del Nord che sembra aver abbastanza irritato Ferran Adrià, costretto a cedere il primo posto al bel René, nato proprio nelle cucine del Bulli.

Eccolo

“E Allora il Noma è il miglior ristorante del mondo? Nella sua tipologia e per i valori che esprime, si. In assoluto no. Solo il gioco ben organizzato da una ristretta ma efficiente lobby di critici e pr lo ha portato in vetta ai 50 Best. Quella stessa lobby che individua nello Chateubriand di Inaki Aiziparte il miglior ristorante di Francia. E se lo Chateubriand fosse il miglior ristorante di Francia, certo il Noma potrebbe essere definito il miglior ristorante del mondo”.

Enzo Vizzari

E allora, cosa è il Noma per Enzo Vizzari? “Di gran lunga il più affascinante progetto di alta ristorazione mai comparsi a nord dei Paesi Bassi, ma è ben difficile, e forse neppure auspicabile, che la sua cucina possa inaugurare una nuova corrente destinata a fare nuovi proseliti fuori dalla Scandinavia proprio per la natura dei prodotti con cui è costruita”

Insomma, per banalizzare in termini giornalistici: i francesi ci hanno dato le salse, gli spagnoli le spume, adesso evitiamo gli scarrafoni please.

9 Commenti

  1. Non ho letto l’articolo, mi limito al post. In prima analisi sembra quindi che Vizzari , diritto e concreto come suo costume, non consideri né perori la cucina nordica come alfiere del territorialismo e della filiera corta: è fenomeno culturale locale, affascinante e da conoscere proprio come esperienza altra, diversa. Ma non esportabile né riassumibile in uno slogan culturale globale. Questa considerazione sembra portare alle osservazioni di Adrià che sottolineavano la necessità di una specializzazione, della ossessiva determinazione a conoscere un prodotto, una materia prima, anche la più bistrattata e distante dalla tavola, in tutte le sue espressioni. Sembra di capire che in fondo la cucina scandinava è attuale proprio per questa capacità (forse di origine orientale) di dare dignità a prodotti singolari, locali e finora non ritenuti nemmeno edibili. Nessuna rivoluzione tecnica e d’approccio, ma una straordinaria spinta, emotiva e professionale, a considerare, rivalutare, sviscerare materie prime che potremmo avere dietro casa, conosciute, misconosciute, a volte non considerate. E l’Italia ne è piena, il Sud in particolare.

    1. Uno dei prodotti considerati casalinghi e da non esibire era la colatura di alici di Cetara!
      Sì, mi pare di capire che Vizzari inquadra la cucina del Noma in modo equilibrato: bella e divertente esperienza, ma difficile che possa diventare punto di riferimento fuori.

      1. Forse l’osservazione sulla non esportabilità può essere riconsiderata proprio in base al metodo e non al contenuto, quindi non rifare i licheni a Pozzuoli, ma fare ricerca sull’unicità del territorio. Secondo me ci sono già diverse realtà che lavorano bene sulla tipicità zonale, mi chiedo anche se una gran parte dell’impatto di esperienze come quella di El Bulli e del Noma ce l’abbia in misura considerevole l’orchestrazione delle percezioni, il gioco delle presentazioni sorprendenti, la tecnica che trasfigura ma conserva una riconoscibilità di fondo dei gusti originari. Questa cosa manca tantissimo in Italia, siamo ancora il paese dove si ripete a pappagallo la battuta sulle porzioni dell’alta ristorazione, definendole cacatine, sempre per questo gusto d’a cucina ‘e mammà (e stiamo entrando in un’era di mamme incapaci di cucinare, eh!).

    2. Esegesi perfetta, anche senza aver letto il pezzo.
      P.S. Il titolo, con le formiche, è evidentemente “giornalistico”.

  2. Si, Fabrizio, in effetti di formiche( il titolo le mette in risalto) ne abbiamo tutti in dismisura. Se anche un intellettuale come te non scende in pigiama per comprarsi il settimanale, che oggi vale i tre euri solo per il pezzo di VizzAri e la solita feroce vignetta di Altan, vuol dire che siamo all’oscurantismo e diamo fiato alle trombe dei fautori della cucina di retroguardia imperversanti qui come ovunque, mai nemmeno usciti dai confini medievali delle mitiche sbarre Troisi/ Benigni al prezzo dei tre fiorini di allora.

    1. Vero, dovevo scrivere “non ho ancora letto” (anche se il pigiama non mi dona). Circa le formiche mi sembra un vizio molto italiano quello ci concentrarsi su un punto particolare, limitarsi all’aspetto più immediato, all’annuncio, e farne simbolo del tutto. Nel caso del Noma, anche solo a leggerne, non è così, c’è ben altro oltre le formiche. Infine spero di non aver dato fiato alle trombe passatiste, anzi, la mia osservazione voleva essere esortazione all’apertura mentale, alla riconsiderazione, alla curiosità, all’esperienza innovativa, lontanissima dalla visione museale cui ti riferisci. Ah, intellettuale dillo a qualcun altro… :-)

  3. Io filosofeggerei meno, riconducendo una parte, solo una parte, dei temi trattati nell’articolo sull’Espresso a una mera necessita’ commerciale. Ormai siamo da qualche tempo alla presentazione delle collezioni autunno / inverno e primavera/ estate (non ci sono più le mezze stagioni) anche nella ristorazione. Non che la cosa mi dia fastidio anzi la trovo affascinante. Però crea ansia da prestazione: “oddio il prossimo anno che mi devo inventare” dice, cito a caso ma vale almeno per i primi cento chef italiani, l’Uliassi di turno. E allora via tutti, nel periodo di morta o quando sono chiusi, per steppe siberiane o regioni del mondo che la Michelin considera pochino( quante stelle ha la Polonia?. E parte il battage dei blog , dei soloni snob, ancorche’ preparatissimi, dei critici di doppia avanguardia. Contaminazioni, e mi sta benissimo, per carita’: nei tortellini cheBottura ha presentato lunedi’ c’era la rana ma avrebbe potuto starci anche il lichene o la formica e perfino quella dannatissima zanzara che non sono riuscito ad ammazzare a casa mia in tre mesi. Non faccio ironie : ho mangiato delle formiche rosse a Banghok nell’87 veramente succulente, con una Salsina vegetale da urlo che il grande chef di Annecy si sognava. E’ l’ultima moda, bellezza: giri la pagina del pezzo sull’espresso e trovi i libidosissimi stivaletti di Sartore, che infilerai sbavando ai piedini della dea di turno, che porterai a cena al Noma: zanzare danesi e coccodrilli (lo stivaletto) vattelappesca, in una fusion Pret- a- manger cosmica, o almeno a km 16.000. In barba alla totale idiozia del centimetro- zero, vagamente fAntozziano diggiamolo. Insomma condivido il senso dato da VizzAri al pezzo: ristorante interessante, ma probabilmente non restera’ nela storia piu’ di tanto, come certi campioni del mondo di ciclismo che hanno avuto la giornata buona e amen. Certo che Inaki miglior ristorante di Francia resta la piu’ grossa barzelletta degli ultimi anni, e non ci ha fatto nemmeno ridere.

  4. Ho appena finito di lavorare al noma ….!! e vi posso assicurare che ne sono rimasto stranito
    Da ammirare il concetto di cucina ,che non si ispira anessun tipo di cucina esistente ora ,per il resto il km 0 o prodotti della scandinavia una palla ,es. il sedano dalla puglia il finocchio dalla campania e via discorrendooooo.
    Comunque rimane il fatto che dove non cè cultura gastronomica la stanno creando e cosi’ un business attorno .
    Non è tutto oro quello che luccica.

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