I grandi ristoranti dei Paesi Baschi | Akelarre, il vero e il falso di Pedro Subijana


Akelarre, esterno

di Roberto Curti

Dubito che Pedro Subijana abbia mai visto Fifa e arena, e che dunque conosca la scena in cui Nicolino Capece (Totò), rifugiatosi in Spagna e in preda ai morsi della fame («Si potrebbe mangiare qualche coserellina?» «Mañana!» «Appunto per magnare!» «Troppo tardi… cerrado!» «E allora?» «Mañana por la mañana!» «Ma qui non se magnana mai!»), non trova di meglio che affettare una spugna come se fosse un panino, e farcirla con saponetta, schiuma da barba e un’abbondante spolverata di talco, prima di addentarla con gusto. Fatto sta che proprio qui in Spagna, per la precisione al tristellato Akelarre abbarbicato sul monte Igueldo, con vista mozzafiato sull’Atlantico, viene servito come benvenuto quello che a prima vista sembra proprio un kit da bagno. Dispenser di sapone liquido, spugna, crema idratante, sali da bagno, colluttorio. Il principe De Curtis non avrebbe fatto una piega.

Akelarre, kit bagno

Al baffuto chef e patron di Akelarre piace scherzare: e a dispetto di un nome (in basco, il sabba) che evoca zolfo e pozioni mefitiche, le diavolerie che arrivano a tavola nel suo ristorante sono l’opera di uno stregone burlone e benevolo. E dunque il sapone è un gel di pomodoro e basilico, da spremere sulla spugna (pane alla cipolla disidratato), i sali sono gamberi in polvere in una bustina edibile da far sciogliere tra lingua e palato, la crema idratante è formaggio Idiazabal, il colluttorio un cocktail di cava e melograno. Potrebbe essere solo una burla divertente, invece è anche buono, e predispone a quello che verrà.

In aggiunta alla carta, ad Akelarre è possibile scegliere tra due menu degustazione, Aranori e Bekarki. E il maitre informa immediatamente i commensali che se vogliono è possibile assaggiarli entrambi. Seguirà depliant illustrativo portato al tavolo, per meglio godersi lo spettacolo.

In confronto ai fuochi d’artificio d’apertura, le portate iniziali sono addirittura sobrie. Si fa per dire, nel caso dei gamberi cotti all’Orujo, passati alla fiamma in sala, di modo che l’aroma dell’aguardiente annunci il piatto vero e proprio, dove l’accompagnamento è costituito da taccole in julienne e in crema e da una polvere ottenuta con i gusci. La polpa di txangurro è appoggiata sopra un saporito blini impastato con le carni del granchio e bagnato nel suo brodo, e affiancata da un finto risotto di grani di pasta (gurullos). Si affaccia, anche se in tono sommesso, l’idea di cucina di Subijana: una cucina dell’imbroglio e della burla, con cibi che somigliano ad altri ma non lo sono, cose che non parrebbero commestibili e invece lo sono, forme menzognere e consistenze ingannevoli, e un’esibizione di tecnica volta a ottenere un effetto estetico o concettuale prima ancora che gustativo.

Akelarre, gamberi all'Orujo

Akelarre, txangurro

In alcuni piatti il gioco è appena accennato: la Navaja con Pata de ternera è un accostamento inconsueto ma non troppo, un rimpallo tra terra e mare, dove il gioco di consistenze e sapori della vongola rasoio alla plancha e dello stinco funziona piuttosto bene, con un’intercapedine di funghi cavolfiore a far da contrappunto. Nel caso dei “molluschi nella rete del pescatore”, la rete (un’aerea tempura di farina di riso e alghe) posta a ricoprire i frutti di mare appoggiati su una crema di riso e borragine, è un’analogia simpatica che apporta un quid impressionistico al piatto, mentre il carpaccio di pasta al sapore di maiale iberico e peperoni piquillo con funghi al parmigiano è, stringi stringi, una saporita variazione sul tema del raviolo aperto marchesiano, con una sottile lasagna ricoperta di funghi, scaglie di formaggio e tartufo, dove il gioco è l’idea di un piatto senza carne che al gusto ricorda un carpaccio tradizionale.
È ancora una presentazione desueta a caratterizzare la caja de bacalao (sostituita dalla commensale con una più rassicurante ventresca): il baccalà è servito in una cassetta tra finto fieno (pasta secca) e con le sue trippe in acqua di pomodoro a parte.

Akelarre, carpaccio di pasta

Akelarre, molluschi nella rete del pescatore

Akelarre, ventresca e bonito

Il rimpallo tra vero e falso ritorna con la scaloppa di foie gras, servita su una riduzione di vino dolce: la cameriera aggiunge un’abbondante dose di quelle che a prima vista sembrano scaglie di sale e grani di pepe nero, e attende maliziosamente qualche attimo prima di spiegare che si tratta in realtà di cristalli di zucchero e riso venere soffiato.
La triglia “integrale” è un virtuosistico esercizio autarchico: non si butta nulla, l’ottimo filetto è ricoperto con lische e testa triturate e pralinate a formare una finta pelle croccante e saporita, e accompagnato da un paté del suo fegato (la vera marcia in più del piatto); a complemento, dei “fusilli di salsa” in stile-Cracco, al prezzemolo, soia e ajo blanco. Più belli che saporiti.

Akelarre, panorama

Akelarre, scaloppa di foie gras

Akelarre, triglia integrale

Caldo de txipiron, mini txipiron y pan frito. Qui, anziché limitarsi alla natura, Subijana si dedica a ricreare il mondo animale. Il risultato riporta alla mente quei vecchi film giapponesi di mostri giganti con improbabili creature impersonate da attori in costumi di gomma: accanto a un calamaro cotto a bassa temperatura, riposa una carcassa fasulla e un po’ sgraziata, ricreata con una sottilissima sfoglia al nero, e ripiena dei tentacoli croccanti.

Akelarre, txipiron

Il rombo con la sua «kokotxa» è una creazione degna del borgesiano Manuale di zoologia fantastica: par quasi di sentire Subijana sghignazzare sotto i baffi mentre assembla il piatto in cucina. Il rombo in realtà ne è privo, ma sul piatto la finta kokotxa, plasmata con il brodo del pesce stesso e radice di kudzu, è un’illusione quasi perfetta, anche al palato. In entrambi i casi, al di là della boutade visiva, i sapori sono pieni, tradizionali, rassicuranti.

Akelarre, rombo con la sua kokotxa

Nei piatti di carne il sovrappiù coreografico si limita alla presentazione dell’agnello con salsa al vino rosso, in cui i sedimenti del vino vengono aggiunti da una bottiglia tagliata a metà (à la Roca), e alla presenza di zucchero filato al tè verde; altrettanto classico – e succulento –  il maialino con pelle croccante (cotto dapprima in brodo e poi passato al forno), con un’emulsione di brodo e grasso, aglio e, gradita intrusa, una squisita meringa al pomodoro.

Akelarre, esterno

Akelarre, agnello

Akelarre, maialino

Si passa ai dessert. Leche y uva, queso e vino en evolución paralela è una variazione entusiasmante sul logoro piatto di formaggi, in sei movimenti dove la coerenza concettuale fa il paio con il crescendo gustativo: gelatina di latte di pecora con succo di vite e noci in polvere; acini d’uva su neve di ricotta e erba cipollina; mousse di formaggio quark aromatizzato con noce moscata e pepe rosa, mosto e pomodoro; millefoglie di Idiazabal con mela cotogna e polvere di vino; un finto acino d’uva di Torta del Casar (formaggio tipico dell’Extremadura) in gelatina di Pedro Ximenez e gelato al gorgonzola.
Più tradizionale, e di strabiliante bontà, lo Xaxu con gelato spumoso al cocco: due blocchi di spugnosa meringa ad circondare una sfera di marzapane ripiena di crema d’uovo alla mandorla.

Akelarre, formaggi

Akelarre, xaxu

Con la Otra tarta de manzana si ritorna alla presa per i fondelli di classe. La torta è una millefoglie (assai gustosa), ma la vera protagonista del piatto è la carta che la ricopre: edibile, al sapore di mela e griffata Akelarre.
Il Flor de Meocotòn è un altro dessert inusuale, se non altro per la scelta della mela cotogna, proposta in varie consistenze (arrosto, in gelato), sovrastata da finti petali edibili e accompagnata da una crema di chufas. Si finisce con tradizionali petit fours, rimpiangendo un po’ la vecchia idea del tagliere con pane, salame e vino (declinati ovviamente in chiave dolce) che un tempo Subijana faceva recapitare a fine pasto.

Akelarre, Flor de Meocotòn

Avanguardia? Nossignore. Verrebbe da definirla una cucina surrealista, se non fosse che gli accostamenti inconsueti e le deformazioni irreali (il kit iniziale, la kokotka, la torta di mele) mirano a sollecitare complicità, anziché a sconcertare. Con trovate spesso divertenti, talora un po’ naïf, mai davvero innovative o provocatorie. Ma che forse, in questo caso, rappresentano il modo più ingegnoso e furbo di accalappiare gourmet irrequieti, di questi tempi in cui spesso a fare la differenza in termini di ritorno economico sono gli effetti speciali, tenendo botta in un’area dove la concorrenza è spietata.

Akelarre, torta di mele

E, magari, avvicinare palati vergini a un’idea di alta cucina da un lato più spiritosa e libera dall’ingessata seriosità comunemente associata ai ristoranti pluristellati, dall’altro ancorata a gusti e abbinamenti confortevoli e rassicuranti. Giovane nelle forme, antica nei sapori. A giudicare dai risultati – ristorante pieno a pranzo in una giornata infrasettimanale, molte facce giovani, ilarità generale alla vista dei piatti  – lo stregone Pedro non ha perso il tocco magico.

Paseo Padre Orcolaga 56
San Sebastian
www.akelarre.net

9 Commenti

      1. Anch’io, ma il panorama quel giorno non era davvero un granché, tra un declinar uniformemente rugginoso di lamiere da un lato ed una vaga marittima brumosità dall’altro.
        Fa intanto piacere leggere una siffatta recensione, di spirito e puntuale, e, pur dimentica del caro usato sciocchezzaio di rito :) , sì ben costrutta da suscitare accoglienza giubilante.
        Sì, un posto dove si sta molto bene. Nel 2009 bella esperienza, alla carta: divertissements iniziali, tre bei piatti, dessert (bravissimo il pasticcere, nostro connazionale), divertissements finali.
        E due mesi prima ero stato a Denia da Dacosta.
        Per Subijana (con Arzak una delle due figure seminali su cui, ante Adrià, s’è incardinata la nuova cucina spagnola; un piacere parlare con lui, grande entusiasmo, e appena appena più giovane del sottoscritto) come per Dacosta (si tratta di due grandi chef, di valore internazionale, è inteso) un modo di porre la cucina che per storia evolutiva non ha potuto a un certo punto fare a meno di echeggiare, sia pur con specifico proprio, l’arrivo e il passaggio del ciclone Adrià.
        E dunque?..dunque l’arte! ..‘moderna’ ovvio!
        Contemporanea? non esageriamo!
        Ma mentre nella cucina di Adrià l’arte (non seconda mano, non copia d’altri ambiti, e quindi né stereotipatamente ‘moderna’ né ‘contemporanea’, e così via) s’è presentata come nucleo irradiante, ben fuso, nel gusto intanto, e dunque insieme in forma e concetto, non esattamente così è stato in Subijana o in Dacosta, per i quali una frattura tra gusto forma e concetto non è riuscita bene a colmarsi. Ragion per cui si può arrivare facilmente a capire tanto chi dall’approccio dei due al ‘moderno’ sia potuto rimanere qua e là più o meno deluso per l’affiorare di tratti naif e/o di tratti troppo marginali al gusto, quanto capire chi da un tale approccio invece, proprio nella più facile evidenza della suddetta frattura, possa essere rimasto, al contrario, naturalmente affascinato nonché felicemente imbonito.
        In sostanza a queste due ottime cucine, talora, e specie nel caso di Dacosta, anche geniali, manca qualcosa per aspirare all’empireo.
        A Subijana, se pur ottimamente ci si diverte e piacevolissimamente satolla, all’interno dello scarto tra il gioco del ‘moderno’ e il gusto ‘classico’, qua e là viene a mancare e la finezza e, ancor più, il balzo nell’ignoto. La tristellizzazione agisce in maniera inaspettata e proteiforme. Sovente ad esempio nel cristallizzare una ‘formula’, si veda il fatto che, a più di due anni di distanza, medesimi piatti vengano paro paro riproposti, dopo che a me e a Rob (vedasi sua rece del 2009 su Passione Gourmet) anche recentemente al valente nostro recensore.
        E in Dacosta, pur nella grande originalità e felicità dell’impianto e dell’articolato insieme del menù, nella rincorsa all’ ‘arte’ in due o tre passaggi per quanto mi riguarda s’era venuta a palesare addirittura una manifesta caduta di prima battuta nel gusto medesimo e in qualche altro caso una certa mancanza nei contrasti e un appiattimento dello stesso.
        ..Ma ce ne fossero e da tornare subito da entrambi (tra l’altro oggi Dacosta segue in parte altra strada).
        Per le mie due non recentissime prove, detto per numero, che ancora a molti, e perché no, piace, più sul 17/20 per un Subijana alla carta e tra 18 e 19/20 per un Dacosta in originale amplissimo degustazione.
        Grazie per l’ospitalità. Ciao a tutti.
        P.S.: ciao Roberto, in questi ultimi tre mesi due volte da Flavio (..Costa, ..ma meno di quanto vale :) , la penultima la migliore di sempre e l’ultima in buona difesa lui solo in cucina a reggere il tutto.

  1. Grazie Maffi :)
    1) Bollicine a tutto pasto, incombevano proiezioni pomeridiane e non potevo rischiare la pennichella; 2) i degustazione sono a 145 euro più il solito 8%

  2. Tenendo fede al filo rosso intrigante di questi reportage, sia per la bravura dell’autore che per l’indubbia peculiarità della cucina visitata, mi piacerebbe capire qual è il segreto dello stregone Pedro. La cultura più aperta del suo paese? La capacità di rischiare? Le mamme e le nonne che cucinano meno o peggio in Spagna? Mi viene in mente Davide Scabin ai tempi dell’Ham Book o del Cyber Egg: a un certo punto disse che voleva tornare in cucina, per cucinare, quasi che avesse fatto altro. Sconfitto? Invece credo possa esser la stessa cosa, se si ha il dono della sintesi, se in Italia non ci fosse un peso della tradizione forse più consistente che altrove. Non conosco direttamente Subijana, ma non mi sembra voglia fare il trasgressivo o l’originale ad ogni costo (sarebbe un problema), anche se in Spagna, per esempio, i Roca sono più tranquilli e Adrià fa altro, e quindi potrebbe correre il rischio di fare la figura del giapponese nella giungla. Tuttavia mi sembra non rientri nella parodia di Woody Allen sui surrealisti degli anni trenta, con un Dalì che riconduce ispirato ogni cosa al corno del rinoceronte.

  3. @ lello: meglio molto meglio l’arte moderna, che resta leggera piuttosto che certi mattoni tArdo – rinascimentali di mia conoscenza:-) @ Scarpato : ormai curti ci ha portato via il lavoro, caro mio: anch’io ho visto il lavoro di Allen e mi sarebbe piaciuto scriverci sopra qualcosa. Ma il critico qui sopra ci mazzulerebbe mica poco. Ci tocca zitti stare e sperare che il pignazza autorizzi il curti a recensore in bel film in cui c’e per la verità poco cibo. Gnocca si , pero’ :-)

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