Rosso di Montalcino e Cirò: sconvergenze parallele. Chi corre verso il burrone?


Intelligenza collettiva

“Hai sentito? Quei coglioni di Montalcino non hanno cambiato  neanche il disciplinare del Rosso e non possono usare come noi cabernet e merlot per migliorare il vino. Il futuro è nostro”.


Stanotte ho immaginato questo dialogo, inventato ma verosimile, tra due produttori di Cirò favorevoli ai vitigni internazionali a commento del finale di partita.
Tutta Italia ha applaudito alla decisione, presa nel segreto dell’urna, dei produttori di Montalcino di non cambiare le regole.
Ovviamente anche a noi questo risultato è piaciuto molto: è un chiaro segnale lanciato da una regione leader nel vino rosso, insuperabile nella commercializzazione e nella promozione del proprio territorio. Tra l’altro ben tenuto.
Una vittoria del buon senso, non ideologica: merlot e cabernet non sono lo sterco di Satana, ma sono chiaramente intrusi in territori che hanno costruito la loro identità su altre uve.
L’identità è, nel vino, un grande valore aggiunto perché si tratta del prodotto artigianale per eccellenza.
Una vittoria che riporta l’amaro e l’acido in bocca, una sorta di rigurgito iatale notturno, per quanto accaduto a Cirò dove invece è avvenuto esattamente il contrario un anno fa: da questa vendemmia sarà possibile mettere nelle bottiglie doc il 15 per cento di altre uve a bacca nera autorizzate in Calabria, cioé tutte quelle conosciute dall’uomo.

Da cosa dipende un simile abbaglio? Come si può votare a favore della propria esecuzione?

1-Il primo motivo è l’ignoranza. Culturale, colturale e commerciale: si procede orecchiando e quanto più si è isolati tanto più si afferrano in ritardo le tendenze reali, quelle che si formano nel profondo di un ambiente e che poi improvvisamente emergono come opinioni leader.

2-Il secondo è la sfiducia nel futuro. Il dibattitto sulla modifica dei disciplinari doc attraversa tutta l’Italia, la macellazione normativa in atto conferisce a ogni etichetta il titolo, un po’ come avviene a Napoli dove chi porta la cravatta è chiamato dottore.
C’è l’idea, profondamente sbagliata, che dalla crisi si esca con la semplificazione e non con la specializzazione, il miglioramento della qualità, lo studio e la ricerca. Non si ritiene di avere il tempo, i mezzi e la capacità di poterlo fare.
Così, invece di studiare il gaglioppo, approfondirlo, sforzarsi di proporlo ad alti livelli, si usano le tecniche enologiche più banali, quella del blend con gli internazionali, per presentare vini che alla fine nessuno cerca perché omologati, tutti uguali da Rosarno a Sidney.

Naturalmente berremo ancora Gaglioppo straordinari come quelli di Librandi e De Franco, ma sarà necessario essere avanti nella conoscenza del territorio, non ci sarà più una doc che ci garantisce sull’impegno dei produttori a rispettare il disciplinare.

C’ è infine un elemento psicologico banale. Quanto più si è ignoranti, tanto più si è presuntuosi, e, come si dice a Napoli, non ci si misura la palla.
Pensare che sia più difficile ottenere un vino da gaglioppo in purezza e non essere i migliori in un blend internazionale sperimentato in tutto il mondo è follia. Ci sarà sempre qualcuno che lo farà meglio e a costo più basso di te. E soprattutto chi è disposto a spendere non ti cercherà mai.

Può darsi che mi sbaglio. Lo spero quasi. Ma io non conosco territori enologici che si sono affermati senza costruirsi normative precise, serie e non omologabili.

Ecco perché la vittoria dei produttori di Montalcino è anche una secca sconfitta per quelli cirotani.

7 Commenti

  1. Meglio così, anche se mi è sembrata una scelta dettata da considerazione e opportunità di carattere economico e strategico, piuttosto che identitario: vedasi il rischio del “cavallo di Troia”, il rischio del “riciclo” della Sant’Antimo e Igt della zona, grandi numeri contro piccoli numeri e simili. Credo che il Cirò sia, come esempio, paragonabile al Brunello, sono i vino rappresentativi e di punta di un territorio e come tali non vanno toccati, purtroppo nel caso del Cirò, non avrebbero dovuto esser toccati. Ma il Rosso non mi sembra, e qui faccio ammenda, godere di grande autonomia, sia di mercato che identitaria, mi sembra sempre un passo indietro, sempre all’ombra del suo capofamiglia, se posso dire. La posizione di Biondi Santi di tre o quattro anni orsono, possibilista nella modifica che consentisse l’uso di altri vitigni presenti in zona, non necessariamnete internazionali, così come le parole di Fiordelli su queste pagine che sottolineano come il territorio sia frutto di cultura, modo di fare, uomini e non solo del vitigno (cosa è autoctono?), mi sembrano realistiche e condivisibili. Se poi entrano in gioco problemi di rapporti di forza e di politica territoriale, commerciali nonchè produttivi in termini di ricaduta, beh ho la sensazione che il povero Rosso di Montalcino faccia la fine di don Abbondio, vaso di coccio tra vasi di ferro. E temo non sia un bene, soprattutto per lui ;-)

  2. Caro Luciano,
    non posso che concordare sul contenuto del tuo articolo, ma più che di “sconvergenze parallele” fra i viticoltori di Toscana e Calabria parlerei proprio di “opposte conclusioni” fra due realtà che sono diametralmente opposte. Montalcino (ma anche la Toscana) è da decenni una “superpotenza” del vino italiano nel mondo. La Doc Cirò, purtroppo, e con essa il vino calabrese, vive una situazione (dal punto di vista economico) neanche minimamente paragonabile a quella della più ricca regione del Nord.
    Da coordinatore per la Calabria della guida “Vinibuonid’Italia” – che ben conosci e che recensisce solo vini prodotti con vitigni autoctoni – non posso che condividere la scelta dei vignaioli di Montalcino, i quali hanno voluto mantenere intatto il disciplinare del Rosso (non strategico però rispetto al più famoso Brunello).
    Mi esprimo decisamente contro la decisione dei viticoltori cirotani che hanno voluto invece la modifica del disciplinare della più importante Doc calabrese.
    Permettimi però di correggere una tua frase riportando integralmente l’articolo 2 del nuovo disciplinare varato lo scorso dicembre:

    Articolo 2.
    I vini “Cirò” rosso e rosato devono essere ottenuti da uve prodotte da vigneti aventi,
    nell’ambito aziendale, la seguente composizione ampelografica:
    Gaglioppo minimo 80%;
    possono concorrere alla produzione di detti vini le uve a bacca rossa provenienti dalle
    varietà idonee alla coltivazione nella regione Calabria da sole o congiuntamente fino ad un massimo
    del 20% ad esclusione delle varietà Barbera, Cabernet franc, Cabernet sauvignon, Sangiovese e
    Merlot, che possono concorrere fino ad un massimo del 10%.
    Il vino “Cirò” bianco deve essere ottenuto da uve prodotte da vigneti aventi, nell’ambito
    aziendale, la seguente composizione ampelografica:
    Greco bianco minimo 80%,
    possono concorrere alla produzione di detti vini le uve a bacca bianca provenienti dalle
    varietà idonee alla coltivazione nella regione Calabria da sole o congiuntamente fino ad un massimo
    del 20%.

    Perciò, a cominciare da questa vendemmia il Cirò Rosso Doc dovrà avere almeno un 80% di Gaglioppo (ma bada bene: tantissimi produttori mi hanno assicurato che continueranno a farlo col 100%) e un 20 % di altre uve a bacca rossa e, fra queste, le varietà internazionali (ma anche le italianissime Barbera e Sangiovese) potranno concorrere fino ad un massimo del 10% della composizione del vino.
    In estrema sintesi i nuovi Cirò Rosso potranno essere costituiti da (è solo un esempio): Gaglioppo 80%, Calabrese 10% e Cabernet Sauvignon 10% o anche Gaglioppo 90% e Merlot 10%.
    Ma, bando alle cifre, che lasciano il tempo che trovano. Vorrei integrare il tuo commento con alcune riflessioni, dopo aver visitato differenti realtà sul campo.
    1. L’azienda che produce la maggior parte del Cirò calabrese (Librandi) è fuori dalla Doc e l’ottimo professor Nicodemo mi ha assicurato che il loro Cirò Rosso sarà sempre Gaglioppo al 100%. Altri produttori seguiranno questa strada.
    2. Non crocifiggerei quei viticoltori che si sono battuti per la modifica asserendo (semplicisticamente) che un piccolo apporto di internazionali migliorerà il colore del Cirò rosso rendendolo più commerciabile sui mercati internazionali. Anche per loro è stata una scelta sofferta (ma sbagliata). Avranno tempo per ripensarci. Spero, in cuor mio, che pochissimi di loro vinificheranno sfruttando il nuovo disciplinare.
    3. La modifica della Doc cirotana non è stata – secondo me – una scelta d’ignoranza, semmai di “disperazione” sulla scia del periodo da “vacche magre”, maggiormente sentito al Sud, alimentato giustamente dall’idea che bisogna pur sopravvivere, in qualche modo, in carenza di vendite all’estero. Quest’estate ho visto che molto vino Cirò è ancora venduto sfuso, nelle botteghe della statale 106 o da micro aziende a carattere ultralocale… altro che le superpotenze del Brunello! In Calabria è stata autorizzata la distillazione di crisi e una congrua fetta del raccolto di quest’anno non sarà vinificata. Questi agricoltori, piccoli, medi, grandicelli, vanno a mio parere giustificati. Nessuna presunzione da parte loro. Penso piuttosto che siano stati mal consigliati e scarsamente assistiti dalle istituzioni locali.
    4. La Calabria è una regione enologicamente “piccola” per dimensioni di produzione, ma certamente dignitosissima e variegata nelle diverse zone ampelografiche. Ho degustato ottimi vini del Cosentino e del Reggino, non solo del Crotonese. E oggi la Doc Cirò può diventare la punta di diamante. A patto che si faccia “squadra” o “sistema”, come si usa dire oggi e che i viticoltori vadano compatti in una sola direzione confrontandosi di più e meglio con i consumatori finali. Che certamente preferiscono il Gaglioppo 100% come autentico vino tipico del territorio. Sta poi a noi, critici, più o meno esperti, opinionisti ed altro, mediare nella giusta direzione.
    Un forte abbraccio.
    Umberto Gambino

  3. La sera del 7 a scrutinio chiuso subito ho pensato ai miei conterranei (cirotani). Condivido l’analisi di Luciano e l’ho rilanciata in una nota per segnalarla a tutto il mondo del vino calabrese.
    La domanda che mi faccio e che vi faccio è questa: ho visto un dispiegamento di forze per difendere il Cirò simile a quello messo in atto in questi giorni (con le dovute proporzioni), come mai nulla hanno potuto?

  4. E’ difficile sostenere che il Cirò fatto col solo Gagloppo sia migliore o peggiore di quello fatto con l’aggiunta dei vitigni internazionali. Credo che il punto fondamentale per noi consumatori sia la chiarezza. Sapere quindi con quale uva o uve è fatto il vino. E’ chiedere troppo?

  5. Ci sono altri esempi in Italia simili al Cirò. Preferisco non citarli per carità di patria. Aggiungo che avrei capito simili scelte, non approvate ma capite, dieci o quindi ci anni fa, sulla scia di una moda allora imperante: oggi il mondo sta andando dall’altra parte. Aspettatevi ottimi Gaglioppo (e non solo Gaglioppo) dall’Australia e dalla California, naturalmente in purezza, nei prossimi dieci anni. Le zone viticole più calde del Nuovo Mondo sono alla ricerca di varietà più adatte ai loro climi di Cab e Merlot (e Syrah) e le stanno trovando.

  6. @Umberto
    Credo che tu abbia centrato le cause. Aggiungo solo che proprio quando la situazione è critica si vede la stoffa di chi reagisce.
    In Penisola Sorrentina di fronte alla crisi del 2009 nessuno si è messo a vendere pizzette o hamburger, ma i locali hanno migliorato ulteriormente i servizi e oggi, dopo due anni, hanno vissuto una stagione positiva.
    @Carlo
    Esatto, basta la chiarezza. Per fare gli internazionali c’era già il Calabria igt. Ora a chi la racconteranno che il vino delle Olimpiadi è fatto con cabernet barricato in stile americano?

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