Carignano del Sulcis: tre vini in verticale a La Sardegna di Vinodabere


Carignano del Sulcis - Verticale

Carignano del Sulcis – Verticale

di Raffaele Mosca

Un po’ di sole della Sardegna in una giornata freddissima di Gennaio, intrappolato in vini così evocativi che sembrano fatti di bacche, erbe spontanee e sale marino anziché d’uva. Questa forza espressiva estrema è tipica dei vini costieri in generale ed isolani in particolare. Sensazione analoghe riescono a darle quasi solo i vini siciliani.

Oltre ad essere la regione con la costa più bella e selvaggia d’Italia, la Sardegna è da tempo una fucina di grandi bottiglie, ma patisce una carenza cronica di adeguata comunicazione. C’ha provato il team di Vinodabere, capitanato da Maurizio Valeriani, a compensare almeno in minima parte questo gap, cercando di far comprendere al pubblico romano che l’equazione Isola dei Nuraghi = Vermentino non è l’unica possibile. Non che il Vermentino non riesca a raggiungere picchi qualitativi interessanti, ma ora come ora i più grandi vini sardi sono prevalentemente rossi e provengono solo in minima parte dalla turisticissima Gallura. Lo avevamo già detto nell’articolo pubblicato nella scorsa primavera su Mamojada; lo ripetiamo alla luce di tre masterclass che, oltre a confermare il potenziale della perla della Barbagia, hanno anche messo in luce i progressi fatti in due territori meno battuti come il Sulcis a sud-ovest e Mandrolisai nel centro dell’Isola.

Carignano del sulcis - vigne - santadi

Carignano del sulcis – vigne – santadi

Partiamo proprio dal Sulcis e dal suo Carignano, figlio ribelle delle dune e nemico della fillossera. Un vitigno d’origine ignota: c’è chi sostiene che sia arrivato dalla Spagna e chi, invece, ritiene che sia approdato su quelle coste proprio dall’isola di Sant’Antioco, dove sarebbe stato presente fin dall’epoca dei fenici. Difficile dare ragione all’una o all’altra fazione, ma quel che è certo è che a Sud Ovest della Sardegna regala vini unici: scuri nel colore e carichi di profumi; tendenzialmente meno tannici e più generosi nella componente fruttata dei Cannonau dell’entroterra, ma dotati di salinità intensa che dà tridimensionalità.

Vini da viti che, proprio per via del terreno quasi totalmente sabbioso, sono riuscite a sopravvivere alla fillossera. “ Fino a qualche anno fa si contavano oltre 800 ettari di vigne a piede franco in zona – spiega Dario Cappelloni,  redattore della guida di Doctorwine chiamato da Valeriani a condurre la degustazione – alcune sono state espiantate, ma la presenza è ancora notevole”. Cosa riesca a dare in più una vite centenaria senza piede americano non è facile sintetizzarlo: la vigna vecchia di per sé dà uve più concentrate, frutto di rese più basse, e quindi molto più ricche di nutrienti e sostanza aromatica; la vite a piede franco, non avendo nemmeno l’intermediazione del piede alloctono, si ritiene sviluppi un rapporto ancora più simbiotico con suolo ed ambiente circostante.

E, in effetti, questa simbiosi con il luogo è emersa nei tre vini assaggiati in batterie da quattro annate. Una rivelazione assoluta il meno conosciuto dei tre: Nerominiera di Enrico Esu, piccolo vignaiolo che da circa 9 ettari di vigna ricava più o meno 10.000 bottiglie, a dimostrazione di quanto basse siano le rese in questo territorio caldo, arido e sabbioso. Il nome evoca il lavoro che tutti gli abitanti della zona di Carbonia-Iglesias hanno fatto nei decenni passati. Ma cupo come i cunicoli delle miniere è anche il colore nel calice di questo Carignano essenziale, forte di una vinificazione minimalista, in acciaio inox, che ne esalta i connotati mediterranei. Ha un prezzo onesto – sui 16-18 euro – e una scorrevolezza non scontata per un vino prodotto in un contesto del genere.

Diverso il discorso per gli altri due vini: la Riserva Is Arenas, della cooperativa Sardus Pater, e il famoso Terre Brune, nato dall’idea geniale di un gruppo di viticoltori che, per fare un balzo verso l’alto, assoldarono Giacomo Tachis come consulente della loro cooperativa. Due vini che dimostrano la grande qualità espressa dalle cantine sociali sarde, che, come Valeriani ha tenuto a sottolineare, sono seconde solo a quelle altoatesine. Il primo è prodotto sull’isola di Sant’Antioco, di fronte al mare, e ricalca lo stile ultra-Mediterraneo del Nerominiera, con un filo di profondità in più data dall’affinamento in legno; l’altro è più composto, più aristocratico e  di gusto internazionale se vogliamo, ma, nelle annate giuste, tiene testa a Baroli, Brunelli e Supertuscans in termini di longevità. Provare la meravigliosa 2002 per credere.

 

I vini

 

Enrico Esu – Carignano del Sulcis Nerominiera

2017

Apertura in bellezza con un’espressione che nel calice si rivela subito esuberante e diretta: finocchietto selvatico, bacca di ginepro, marasche e carrube. Il sorso è ampio, ma senza eccessi strutturali; il frutto caldo e suadente è smorzato da rintocchi energizzanti di spezie ed erbe spontanee. Molto intrigante.

 

2018

Subito diverso: vegetale e floreale, con cenni pepati e di bacche di ginepro. L’annata eccezionalmente piovosa ha dato un vino più fresco e longilineo, con tannino più in lizza e meno polpa, finale tonico su note speziate e leggermente erbacee.

 

2019

Il più ermetico del quartetto: mostra un profilo cupo con accenti di prugna, marasca e una nota tostata da vitigno e non da legno. Ha larghezza, pienezza fruttata calibrata dal solito mix di salinità rinfrescante e rimandi speziati che conducono ai giochi fino al finale succoso su toni di fruttini di rovo maturi. Eloquente!

 

2020

Stacca gli altri per finezza e completezza: il profumo è di mirto e origano, liquirizia, cacao amaro e bacche nere. E’ il più fine ed equilibrato dei quattro, con frutto nitido e croccante, erbe spontanee e spezie a dare ampiezza retro-olfattiva, ritorni salini che scandiscono un finale sorprendente per energia e scorrevolezza.

 

Sardus Pater – Carignano del Sulcis Is Arenas Riserva

2015

I profumi deflagrano nel bicchiere: dattero, fico, carruba, cacao amaro ed erbe officinali. Esuberanza mediterranea che torna puntuale in bocca, a disegnare un sorso rotondo, compassato, ma con energia salina di fondo che calibra il tutto e dà sapore alla chiusura lunga e variegata. Splendido per potere evocativo.

 

2016

Un po’ meno esuberante del precedente: esordisce su toni piccanti di trito di erbe aromatiche e peperoncino spezzettato, seguiti da giuggiole e liquirizia. In bocca emerge una vena vegetale che lo rende fresco, reattivo, ma anche un pelino ammandorlato in chiusura.

 

2017

Calore e siccità hanno plasmato un profilo ombroso e un po’ evoluto, con accenti di sottobosco, conserva di pomodoro, paprika e frutta secca. E’ il più statico e moncorde della batteria: la sapidità di fondo riesce a fatica ad equilibrare la massa di frutto scuro e ravvivare il finale segnato da alcol un po’ fuori scala e qualche cenno di ossidazione.

 

2019

Ritorno alla freschezza della ‘16: erbe aromatiche, folate balsamiche,  mirto. E’ notevole per equilibrio tra frutto carnoso, avvolgente, acidità discreta, traccia salina che rinvigorisce e tannini molto fini. Sfuma lungo su ricordi di spezie ed erbe aromatiche.

 

Cantina Santadi – Carignano del Sulcis Terre Brune

2002

Un baldo ventenne, figlio di un’annata disastrosa in molte zone dello stivale, ma passabile in Sardegna. Non so se, degustando alla cieca, avrei pensato all’isola, perché i profumi lasciano immaginare una latitudine molto più settentrionale: l’apertura su note di tabacco mentolato, composta di more e carcadè ha un che di bordolese. Ma la bocca riporta al Sulcis con la sua sapidità intonsa, che, unita a ricordi di arancia amara, cadenza un sorso di meraviglia souplesse e persistenza sottile, ma molto infiltrante. Può riposare in cantina per altri dieci anni.

 

2008

Un salto di sei anni e lo scenario cambia completamente: il 2008 è un vino decisamente meno cesellato, anzi piuttosto scapigliato. Una nota selvatica esuberante – forse un po’ di brett?! – lascia progressivamente spazio a spezie ed erbe spontanee, peperone crusco, caffè. La traccia boschiva-animale è in bella mostra anche in bocca: domina una progressione abbastanza rustica, con chiusura su toni boschivi e pepati. Qualcuno ipotizza un problema di bottiglia non perfetta.

 

2015

Altri sette anni e ci ritroviamo di fronte ad un vino ancora in fase giovanile: tutto incentrato sul frutto, con giusto qualche spennellata di lavanda e spezie dolci. Torna sulle stesse sensazioni in bocca: preciso e compassato, morbido ma senza cedimenti. Il tempo gli darà la profondità che manca in questa fase.

 

2018

Si chiude la batteria con una delle ultime annate messe in commercio: ancora molto indietro nell’evoluzione, giocata su toni freschi di giuggiola e mirtillo nero, erbe disidratate e china. Più agile e croccante del ‘15, scorre con una certa disinvoltura, anche se il finale è ancora segnato dalla traccia tostata dei legni di affinamento. Crescerà.