Clelia Romano e Colli di Lapio, la signora del Fiano di Avellino


Carmela Cieri e Clelia Romano

Carmela Cieri e Clelia Romano

Clelia Romano, Gabriella Ferrara, Antonio Caggiano. Salvatore Molettieri. Sono stati loro, Fiano di Avellino, Greco di Tufo e Taurasi, gli artefici della scoperta delle piccole aziende nella prima metà degli anni ’90 dell’Irpinia. Poche chiacchiere, molto riserbo, tanto lavoro senza lasciarsi influenzare dalle mode, ciascuno è diventato il sinbolo di una delle tre denominazioni docg della Provincia di Avellino. Qui rilanciamo il ritratto di Celia Romano uscita dalla penna e agile penna di Diana Cataldo pubblicato settimane fa su Cucina a Sud.
I suoi vini sfidano il tempo, potete aprirli anche dopo 20, memorabile il 1999, l’annata migliore di sempre. Il lungo sodalizio con l’enologo Angelo Pizza ha creato il benchmark del Fiano di Avellino a Lapio.

di Diana Cataldo

Un successo così, coronato da premi su premi, recensioni unanimi da ogni parte del mondo, fino al titolo di “Miglior vino bianco d’Italia” nel 2008 per il Gambero Rosso, Clelia Romano non avrebbe potuto nemmeno immaginarlo. Negli anni ‘90 papà Pasquale (scomparso tre anni fa) da conferitore di uve per Mastroberardino decise di iniziare a far nascere il proprio vino dai vigneti di Fiano impiantati negli anni ‘80. “I miei ricordi di bambina sono legati ai periodi in cui le autobotti venivano a ritirare il vino diretto in alta Italia e in Francia. Mio nonno mi raccontava che, quando era ragazzo, suo padre lo portava alla ferrovia a Lapio, dove si trasportavano con grande fatica i barili destinati ai treni. Io ricordo la nostra cantina sottoterra e il vino che veniva su con una pompa a mano che ancora conservo. Eravamo ragazzini, davamo una mano e ci guadagnavamo qualche spicciolo”. Clelia Romano non poteva sapere che il vino sarebbe stato il suo futuro. Si sposa, si trasferisce in America, a Boston, dove vivrà sette anni. Sarà il suocero a chiedere a lei e a suo marito di tornare in Italia, per riunire la famiglia. Intanto papà Pasquale guardava avanti.

All’inizio degli anni ‘90, con la crisi del prezzo delle uve, decide di mettersi in proprio, scelta che in quegli anni tanti fecero in Irpinia. “Il primo anno fu traumatico. Non eravamo attrezzati, furono momenti di grande sacrificio. Papà non si è mai scoraggiato, neanche un giorno. Mi diceva “Stai tranquilla, non vi lascio debiti”. E fin dal primo giorno abbiamo cominciato a vendere bene, nonostante non avessimo neanche un frigorifero”.

Quando Clelia comincia la sua avventura in cantina, sarà un vicino di casa, un medico, a cambiare i destini di Colli di Lapio. “Un giorno passò da noi e mi disse di portare due bottiglie di vino a un certo ristorante. Erano gli anni ‘90, io non sapevo nulla di logiche commerciali, eravamo in pochi a fare questo lavoro. Io e mio marito partimmo una domenica, direzione Sant’Agata sui due Golfi. Il ristorante era Don Alfonso 1890 ma sinceramente non avevo idea della sua importanza. Ricordo gli argenti, i tulipani neri a tavola e l’incontro con quella che sarebbe poi diventata un’amica: la signora Livia Iaccarino. Ci fece accomodare, ci portò il caffè e i cioccolatini fatti da loro. “Lasciami i cartoni – disse – ti faccio sapere”. Ricordo il mio imbarazzo, avevamo con noi solo 2-3 cartoncini… Mio marito glieli consegnò, ci aspettavamo che assaggiasse il nostro vino. “Clelia – mi disse – il vino ha viaggiato e deve dormire. Lo assaggerò quando sarà il momento”. Io e mio marito eravamo sinceramente scettici. Dopo una settimana  mi richiamò, riempiendoci di complimenti. Quell’incontro ha segnato profondamente sia il mio futuro professionale che il mio approccio al mondo del vino. È qui, da Don Alfonso, che ho trovato il mio primo importatore nel ‘98, quando De Grazia andò a mangiare lì. Lei mi diceva: se farai sempre il vino così, lo venderai sempre. E così è stato”.

Oggi Colli di Lapio ha una produzione media di 60-65mila bottiglie da dieci ettari di Fiano, tutti ad Arianiello, a Lapio, 620 metri di altezza, la zona più alta del paese. Le escursioni termiche e l’umidità dei terreni sono tra i segreti della signora del Fiano, di quel vino che ha conquistato la Campania, l’Italia e il mondo. Un altro incontro determinante è stato ad Avellino, all’enoteca Evoè.

“Io e mio cugino eravamo in partenza per Roma per girare qualche enoteca, sempre molto inesperti. Passammo prima per Evoè, dove il titolare mi presentò due signori. Per vent’anni sono stati i miei rappresentanti su Napoli, mi hanno fatto crescere molto. Ancora oggi il 40% della mia produzione viene venduta in Campania, in particolare a Napoli e a Capri”. Da lì sono arrivati gli agenti, dal ‘98 l’estero, le chiamate dei giornalisti, le recensioni, i premi. Un successo consolidato che ha permesso a Clelia Romano di non risentire neanche dei momenti drammatici del lockdown.

“Non mi sarei mai aspettata un successo simile. Quando mio figlio mi ha detto che avrebbe sistemato il vecchio casolare di fronte la cantina per farci la nuova sala degustazione gli ho detto: ora doveva essere vivo tuo nonno”. Papà Pasquale, “il mio maestro, da cui ho imparato ogni segreto”, trasmesso ora ai figli Carmela e Federico, e adesso anche ai nipoti che cominciano a venire in cantina. “Sono ragazzi in gamba, non si fermano mai. Il loro obiettivo è quello di restare un’azienda familiare, senza grandi ampliamenti, curando il cliente con attenzione sempre maggiore. Tra pochissimo sarà pronta la nuova sala degustazione e non vediamo l’ora di tornare ad accogliere in cantina quanti desiderano scoprire il nostro vino”.

Clelia Romano

Secondo Clelia Romano l’Irpinia può avere un futuro legato al turismo, come accade in altri territori “come il Piemonte con il Barolo”, dice. Quando nacque Colli di Lapio le cantine erano pochissime, oggi solo il territorio Lapio ne conta tredici. “La qualità media si è decisamente alzata, ci sono tante cantine buone. Studiamo tanto, insieme ai miei figli compriamo vini di altre zone e li confrontiamo con i nostri. Quel che è certo è che la denominazione va assolutamente tutelata, mentre la strategia di alcune aziende la danneggia. Su questo serve maggiore tutela da parte degli organi preposti. Tanti hanno svenduto i loro prodotti, io non ho mai abbassato i prezzi, neanche nel lockdown. Così come non li ho alzati nei momenti di maggiore popolarità”.

Qual è, insomma, il segreto del successo dei vini di Colli di Lapio e della” Signora del Fiano”? Clelia Romano non ha dubbi: “L’umiltà, una caratteristica che è stata sempre apprezzata. Nel 2008, quando il mio Fiano è stato premiato come Migliore bianco d’Italia dal Gambero Rosso, non ho alzato di un euro i prezzi e tantissimi mi hanno chiamata per ringraziarmi. Se avessi avuto più produzione avrei venduto fino all’ultima bottiglia, e lo stesso se avessi alzato i prezzi. Ai miei figli dico sempre: ricordatevi le parole di nonno . Non ci si deve montare la testa, bisogna mantenersi umili e trattare le persone tutte allo stesso modo, sempre con un sorriso. Siate accoglienti, aprite bottiglie, siate generosi. Questa è la mia natura, di chi sa cosa significa il sacrificio, cosa significa cominciare da zero”.

Di umiltà, così come di qualità, Clelia Romano ne ha da vendere. E dalle sue parole traspare l’orgoglio di chi con le proprie mani e la propria testa ha saputo dare vita ad un’azienda che oggi è una vera punta di diamante per l’Irpinia intera. Tanta strada è passata da quando si etichettava a mano o si lavavano fino a quattromila bottiglie alla volta, ma se in trent’anni il mondo del vino è cambiato, ci sono cose che orgogliosamente non cambiano mai. Come la qualità di questi vini. Parola della Signora del Fiano.