Come eravamo: ad Eboli Raffaele Spagnuolo e gli spaghetti con l’aringa affumicata


Spaghetti con l’aringa, Raffaele Spagnuolo

di Carmen Autuori

Quando si pensa alla gastronomia ebolitana la mente corre inesorabilmente al Ciauliello, l’antica zuppa contadina a base di ortaggi essiccati e una densa conserva di pomodoro che nel 2020 è stata riconosciuta PAT (Prodotto Agroalimentare Tradizionale). Eppure, l’antica cittadina nel cuore della Piana del Sele dal territorio vastissimo – si estende dalla parte meridionale dei Monti Picentini fino al mare – ha una tradizione gastronomica che, come spesso accade nel Bel Paese, si differenzia anche da quella delle zone limitrofe e ne determina il bagaglio culturale. È necessario, però, che tale bagaglio venga preservato dal rischio di essere fagocitato dall’omologazione che si concretizza, nel migliore dei casi, in banali storytelling.

Ci troviamo sicuramente di fronte ad una cucina di origine contadina a base soprattutto di ortaggi e legumi che però ha come contraltare quella delle feste molto più strutturata e, soprattutto nei secondi, centrata su carni pregiate.

Ultimo testimone – forse l’unico – di questa doppia anima della tradizione culinaria è Raffaele Spagnuolo, uno dei primi ristoratori ebolitani e memoria storica di antiche ricette che fino a venticinque anni fa si potevano gustare nel rinomato ristorante di famiglia “Arturo”, nato come cantina e divenuto poi punto di riferimento per gli amanti della cucina tradizionale dell’intera provincia. La famiglia Spagnuolo, ebolitana Doc anzi “jevulese” -precisa Raffaele – è stata sempre legata a doppio filo alla gastronomia, a cominciare da nonna Annunziata Mairo che durante il Ventennio cucinava per i matrimoni che all’epoca venivano festeggiati in casa, per proseguire con papà Arturo prima pastaio e poi oste e da sua moglie.

<<Partiamo da un presupposto – precisa Raffaele – come tutte le ricette della tradizione anche quella del Ciauliello è modulata in base alle abitudini familiari, ma c’è un principio da cui non si può prescindere: il piatto non deve presentarsi liquido ma piuttosto asciutto e deve essere molto equilibrato negli ingredienti, ovvero tutti gli elementi devono conservare il gusto originario, altrimenti è un pasticcio. Inoltre, non dimentichiamo che fino al secondo Dopoguerra nelle campagne ebolitane si produceva esclusivamente il grano tenero, a differenza delle zone limitrofe dove si erano insediati alcuni coloni provenienti dalla Puglia che avevano importato quello duro.

La pasta fresca, così come il pane, qui si è sempre fatta con il grano tenero che in cottura rilascia più amido e quindi rende il piatto cremoso senza aggiunta di ingredienti estranei. Ad esempio, ad Eboli si è sempre detto che “lagana e ceci” deve essere “bavosa”, anticipando di decenni la moda attuale che vuole il rilascio dell’amido per rendere il piatto cremoso, appunto. Noi l’abbiamo sempre realizzata così, sia al ristorante che a casa, da oltre sessant’anni>>.

Secondo Spagnuolo, inoltre, ogni tipologia di pasta fresca richiede un sugo realizzato con carni diverse. Un antico detto ebolitano recita: “fusilli e cavati sugo di castrato e ricotta grattata”. Questo perché il ragù di castrato resta più liquido di quello tradizionale, quello alla napoletana per intenderci. Stessa caratteristica presenta il ragù con la gallina imbottita, sontuoso piatto immancabile nei banchetti nuziali di un tempo e sulla tavola di Capodanno, molto adatto per condire i ravioli di ricotta di pecora e gli “schiaffoni”, pasta fresca all’uovo, antesignana dei paccheri>>.

Non solo primi, l’antica cucina ebolitana è depositaria di peculiari ricette di carne, in particolar modo il capretto.

<<A differenza dei paesi limitrofi, influenzati dalla tradizione lucana, il nostro capretto viene cotto in padella e non al forno con le patate – spiega Raffaele Spagnuolo – in maniera molto semplice e con pochissimi aromi: aglio, peperoncino, alloro e un poco di vino bianco. Attenzione però: per noi il capretto è di taglia piccola, cioè già pulito non deve superare i cinque chili di peso, e questa regola si applica anche all’agnello. Al netto delle parti più nobili che vengono cotte in padella, del capretto non si butta via niente. L’intestino e lo stomaco vengono utilizzati per fare le “gliummarelle” (involtini cotti al sugo e aromatizzati con aglio e prezzemolo), mentre il resto delle interiora viene soffritto in padella, da crudo, con aglio e tanto peperoncino. Discorso a parte merita la testa dell’animale: una volta si arrostiva su una griglia poggiata sul braciere, a calore dolcissimo dunque, unta continuamente da un’emulsione di olio, sale ed aceto, oggi la brace può essere sostituita dal forno a patto che la cottura sia molto lenta. Se parliamo, invece della carne di manzo molto diffusa era la “pizzaiola’, il secondo del giovedì. Mia madre la preparava con l’arrosto di quarto e, a differenza di quella napoletana che prevede prima la cottura del pomodoro a cui poi si aggiunge la carne, poneva in padella tutti gli ingredienti a crudo. Il sugo serviva a condire gli spaghetti spezzati, tubetti o pasta mista, che sostituivano le trafile più diffuse in altri luoghi come le penne e i rigatoni >>.

Spaghetti con l’aringa, le gliummarelle

Veniamo al pesce. Baccalà, alici salate e aringhe, in dialetto ‘a saraca, sono stati i pilastri della cucina di magro.

Spaghetti con le aringhe, insalata di arance e aringa

<<Fino agli anni Ottanta il mestiere del “saracaro”, cioè il venditore di baccalà, aringhe ed alici salate era molto diffuso. In particolar modo l’aringa, opportunamente pulita, era consumata con l’insalata di arance che qui, a differenza di quella siciliana, prevede la presenza dell’aglio al posto della cipolla insieme al peperoncino, all’origano e a tanto olio. L’insolito abbinamento era dettato dalla necessità di raggirare la fame con poco, in altre parole se in estate la cena si risolveva con l’insalata di pomodori, in inverno con le arance. Non dimentichiamo che il nostro centro storico era ricco di magnifici giardini pensili coltivati ad agrumi – arance, limoni e mandarini tardivi – che insieme ad una fonte proteica poverissima qual era l’aringa affumicata, andavano a comporre un pasto nutrizionalmente equilibrato e saziante.

Il gusto complesso di questo pesce povero mi è stato d’ispirazione per la realizzazione di un piatto semplice, povero ma estremante gustoso: gli spaghetti con l’aringa affumicata.

Spaghetti con l’aringa affumicata

Proposto nel nostro ristorante e subito apprezzato dalla maggior parte degli avventori, il piatto è stato adottato da molte famiglie ebolitane diventando, così, elemento della tradizione gastronomica locale. In genere viene preparato in occasione dei pasti “di magro”, come la sera della Vigilia di Natale o i venerdì di Quaresima in sostituzione del banale (e costoso) spaghetto a vongole. A casa mia vige ancora l’uso del calendario gastronomico e, nella stagione fredda, protagonista dei pranzi del venerdì è quasi sempre lo spaghetto cu ‘a saraca”>>.

 

Ricetta di Raffaele Spagnuolo raccolta da Carmen Autuori

  • Tempo di preparazione 10 minuti
  • Tempo di cottura 29 minuti
  • 3.0/5Vota questa ricetta

Ingredienti per 4 persone

  • 6 aringhe affumicate sfilettate
  • 380 g di spaghetti
  • 1 barattolo di pelati
  • Vino bianco
  • Prezzemolo tritato
  • Peperoncino piccante
  • Olio evo
  • Aglio

Preparazione

Lavare ed asciugare con grande cura le aringhe sfilettate.
Soffriggere in abbondante olio evo aglio e peperoncino.
Calare insieme le aringhe ed il prezzemolo nel condimento, sfumare con il vino bianco.
Aggiungere i pomodori pelati spezzettati con le mani, salare pochissimo e lasciar cuocere per circa 30 minuti a fiamma dolce.
Lessare gli spaghetti al dente e mantecare con il sugo.
Servire il piatto con abbondante prezzemolo tritato.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.