Furore, il vino del Fiordo


Totani e patate. Piatto tipico della Costiera più selvaggia compresa tra Amalfi e Positano? Forse, ma soprattutto il cd gastronomico della storia degli abitanti di Furore e di tutti quei borghi costruiti tra gole scoscese e la spuma del mare. Pescatori di costa e contadini di collina: questo sono sempre stati gli ottocento abitanti dei cinquemila scalini, tanti se ne contano tra il Fiordo e Agerola, nel paese che non c’è. Neanche lo spazio sufficiente a costruire la piazzetta attorno al sagrato della chiesa. Mare e terra, certo, ma anche spiaggia, collina e montagna, ossia agrumeti portati dai pirati arabi, vigne costruite da Bacco e castagni piantati da Pan. E, ovunque, austeri ulivi di Minerva e querce di Zeus, ai muri bianchi le corone di spunzilli, sui balconi e nelle gole i capperi, nell’orto la frutta e tra i muri i fichi d’India. Allegro, tranquillo, ma anche orrido e inquietante, quando cala la nebbia e il vento urla nelle gole dove la roccia caccia i contadini. Terra Furoris, così era nota la zona ai tempi fausti della Repubblica Amalfitana. Per questo qui si beve da secoli il bianco gentile dai vitigni di Falanghina e Biancolella, profumato dal Ripoli e l’austero rosso passato in legno da Piedirosso (Per ’e Palummo), Sciascinoso (Olivella) e, naturalmente, Aglianico. Il vino di Furore non è ammiccante come quello di Ravello: soffrono troppo i contadini a lavorarlo nei sassosi terrazzamenti costruiti negli ultimi due secoli, il sole crudele picchia le viti tutto il giorno, tutti i giorni, da aprile sino alla fine di ottobre, la vendemmia non è bucolica passeggiata tecnologica ma antico sudore italico sulle terrazze inaccessabili. E, ci insegna il maestro Gino Veronelli, tutto questo finisce nel bicchiere. Eppure proprio la piccola Furore è uno dei paesi che più di altri hanno contribuito alla rinascita e all’affermazione del vino meridionale e campano. Cinque vini, trentamila bottiglie da uve coltivate in meno di dieci ettari, la cantina piccola ma ben attrezzata e subito piovono ambiti riconoscimenti dalle guide specializzate. Oggi Andrea Ferraioli e Marisa Cuomo (è lei a dare il nome all’azienda) costituiscono una delle realtà più significative del Mezzogiorno. I bianchi sono due delle tre sottozone indicate dalla denominazione d’origine controllata Costa d’Amalfi: Furore e Ravello, entrambi da uve Falanghina e Biancolella a cui si aggiungono Ripoli nel primo e Ginestrella nel secondo. I rossi sono tre: Furore, Furore riserva e Ravello riserva da Piedirosso e Aglianico. Decisiva e ben dosata la sosta in barriques di rovere di secondo passaggio. Sia chiaro, parliamo di bimbi appena nati: la prima Riserva, accolta dagli applausi scroscianti degli esperti, è del 1995. Cioé, enologicamente parlando, di qualche ora fa. Quale sarà il destino della Riserva 1995 tra cinque, dieci o vent’anni? Speriamo proprio di poterlo raccontare. Del resto l’esperienza dimostra come i vini meridionali abbiano una naturale predisposizione all’invecchiamento sostenuti dall’alcool naturale che affina nel tempo i tannini. E, a proposito, chi, oggi, può dire del futuro dei bianchi? Certo, non sono sostenuti dal legno perché la fermentazione avviene nei serbatoi di acciaio inox, ma sono vini dal fisico del maratoneta grazie all’elevato contenuto acido. La lite Andrea e Marisa rilevarono il marchio «Gran Furor Divina Costiera» nel 1983, quando decisero di dare lustro all’attività di due generazioni di Ferraioli. Lo acquistarono dagli eredi di Vincenzo Cavaliere, esiliato a Pantelleria dove apprese l’arte della vinificazione. Tornato in Costiera, iniziò ad etichettare il vino e a venderlo nei ristoranti di Amalfi e Positano oltre che ad esportarlo negli Stati Uniti. Tra Cavaliere e il nonno di Andrea non corse mai buon sangue e, come sempre accade nei piccoli paesi, passarono molto tempo nelle aule del tribunale di Napoli perché nel frattempo anche Raffaele Ferraioli aveva dato un vestito al vino di Furore agli inizi degli anni Trenta. Quell’epica lite si concluse con la vittoria di Raffaele Ferraioli che poté continuare a stampare sull’etichetta «Premiata Casa Vinicola di Bacco». Nel 1935 viene inaugurata la strada tra Agerola e Amalfi, divenuta storico percorso di corse automobilistiche e Raffaele decide di aprire la trattoria «Hostaria di Bacco» per servire il suo vino agli avventori di passaggio. Oggi il vino di Furore si identifica solo in Andrea e Marisa. Uno dei due figli di Vincenzo Cavaliere (anche lui Vincenzo ma Esposito di cognome perché…) perse la vita tragicamente in una gara automobilistica in Svizzera. Vino e motori sono stati la passione della sua breve vita. E così quando Andrea e Marisa chiesero agli eredi Cavaliere di poter acquistare il marchio, certamente più caratterizzato geograficamente di quello di Raffaele, l’accordo fu trovato facilmente e senza problemi. La vecchia trattoria oggi è diventata un romantico alberghetto dove ogni stanza ha il suo nome mentre il ristorante è un presidio dei golosi e si chiama sempre Hostaria di Bacco. È il regno di due cugini di Andrea, Antonio e Raffaele. Il primo ama la cucina, il secondo la politica: è sindaco da tempo immemorabile di Furore. È stato uno dei pochi amministratori meridionali a capire che il cibo e il vino sono i migliori ambasciatori per il turismo. Ha battezzato Nanassino l’infuso di fico d’India fatto in casa dai contadini e ogni anno, a settembre, chiama artisti di mezzo mondo a dipingere le case e a fare sculture in occasione della sagra che celebra il frutto simbolo di Furore. Così davanti al Comune c’è il Prometeo, busto bronzeo di Raffaele Di Meglio, mentre il napoletano Luigi Mazzella ha realizzato La Vela. Dopo i Mazzella (Elio ha dato vita a un intervento in cemento per omaggiare la terra, il pittore Rosario ha immortalato la pesca in onore al mare) sono arrivati Giuseppe Leone, Maria Padula, la ceramista Annamaria Grassia, il tedesco Fritz Gilow, il polacco Werner Christian Wontrowa, i romani Castelli, Godi e Pergentili, i sorrentini Centro e Gabelli, il bolognese Mario Giovanetti, il veronese Pippo Borriello e tanti altri verranno. Il paese museo è conosciuto soprattutto per il Fiordo, unico esempio mediterraneo di roccia scavata dal mare. Poche decine di metri dove le appisolate case dei pescatori sono state acquistate e ristrutturate per ospitare giovani artisti in cerca di emozioni, ispirazioni e notti d’amore al caldo tra i flutti. E, traccia di celluloide, la strada è stata intitolata a Roberto Rossellini per ricordare uno dei set del grande regista che qui girò «Il miracolo» con Anna Magnani, divenuta poi addirittura proprietaria di una casa nel Fiordo. Anche a lei è dedicata una via che, manco a dirlo, si incrocia con l’altra. Cento anni Certo il Fiordo è una rarità. Ma l’esistenza di viti piantate nei muri dei terrazzamenti nell’Ottocento non è da meno. Attenzione, non è un problema di vecchiaia, ché saremmo solo in presenza di una curiosità. Il fatto è che queste viti grandi come tronchi non hanno, a differenza di quanto accade in tutto il resto d’Europa con pochissime e rare eccezioni (ricordiamo parte dei Campi Flegrei) il piede americano. Accadde nella seconda metà dell’Ottocento, quando una terribile malattia della pianta, la fillossera sbarcò a Bordeaux e distrusse in pochi decenni i vitigni di tutti i paesi europei. La soluzione fu trovata dopo molte sperimentazioni: gli antichi vitigni furono impiantati su un piede di vite americana, in grado di resistere alla malattia. Per questo motivo, in realtà, il vino europeo che beviamo non è più lo stesso del passato. Ovunque, ma non a Furore e in Costiera Amalfitana dove il caldo e, soprattutto, le caratteristiche del terreno, hanno battuto l’epidemia. Insomma, il Biancazita che assaggiamo è proprio quello di cui andavano pazzi i nobili amalfitani e che i mussulmani bevevano di nascosto ad Allah. Basterebbe solo questo per far pagare ogni bottiglia della doc Costa d’Amalfi tanto oro quanto pesa. Non c’è ancora una spiegazione scientifica convincente a quanto è successo da queste parti. Sorseggiamo questo vino a strapiombo sul Tirreno: i Faraglioni di Capri ci strizzano l’occhio davanti Punta Campanella mentre la mondana e fatua Positano si nasconde. Proviamo gli spaghetti alla colatura di alici in versione furorese (sicché i nostri amici dell’Acquapazza di Cetara, il paese dove è nato questo piatto, non si arrabbino), i totani con le patate, i cavatielli ai capperi freschi, le melanzane al cioccolato. Passiamo subito dal bianco al rosso, e ci ricordano che questa fu la terra di origine di Pietro Summonte, cofondatore dell’Accademia Pontiniana, e dell’illustre storico napoletano Giovanni Antonio Summonte. E qualcuno, ammiccante, ci ricorda che Furore ospitò nel 1346 anche i Sacconi, eretici di Ascoli Piceno accusati di praticare il libero amore. E narra della rabbia sacrilega che sconvolse le menti degli abitanti quando decisero di strappare dalle parrocchie le immagini dei loro santi patroni, Giacomo, Michele ed Elia. La causa può essere stata l’improvvisa incursione di Bacco? Forse l’urlo del vento.

Il Mattino, aprile 1999