Intervista a L’Enologo/ Il vino italiano? Ce n’est qu’un début:-)


L'intervista all'Enologo

L’intervista all’Enologo

Sul numero di febbraio de l’Enologo ho rilasciato questa intervista a Riccardo Cotarella nella quale si spazia un po’ a tutto campo. Un gioco a parti invertite una volta tanto, molto divertente, in cui Riccardo è perfettamente a suo agio.
Eccola in rete:-)

di Riccardo Cotarella

Luciano Pignataro, giornalista del Mattino di Napoli e curatore dell’omonimo blog www.lucianopignataro.it, tra i più cliccati nel settore. Due posizioni privilegiate per fare il punto sul vino italiano. In quale direzione ci si sta muovendo?

“La mia sensazione che è ogni territorio ha fatto grandissimi passi in avanti negli ultimi 25 anni, ma che il bello deve ancora venire. Proseguono gli investimenti e la ricerca sulla gestione della vigna e della cantina, cresce l’esperienza con i vitigni autoctoni leader nelle diverse regioni. Credo si beva sempre meglio e in maniera meno omologata”

In che senso omologata?

“Siamo passati dai vini del contadino, tutti uguali perché erano difettati, a quelli eccessivamente morbidi, concentrati, privi di nerbo e troppo legnosi degli anni ’90. Adesso credo che ogni territorio stia ridisegnando bene le proprie caratteristiche con tantissime proposte interessanti”.

La critica enologica è stata al passo con questo percorso?

“Non sempre. C’è stata una fase di accompagnamento in cui la critica è riuscita ad imporre anche un proprio modello produttivo. Dopo la prima crisi del 2001, mi riferisco alle conseguenze delle Torri Gemelle, si sono affacciate nuove generazioni di degustatori soprattutto grazie allo sviluppo della Rete. Purtroppo si è assistito anche ad una progressiva frammentazione di punti di vista, a scontri spesso più ideologici che di merito. Se il mondo gastronomico ha ancora una gerarchia sostanzialmente condivisa, nel mondo enologico ci sono ormai diverse tribù che non comunicano neanche fra loro, ciascuna con dei riferimenti. Questo in teoria non sarebbe neanche un elemento negativo se non fosse che spesso le principali energie sono indirizzate a demolire quello che non piace”.

A cosa si deve fare riferimento, allora?

“Credo soprattutto ai territori che hanno avuto la capacità di specializzarsi senza avere la pretesa assurda di produrre di tutto un po’ e ai marchi consolidati, ossia quelli in cui è già avvenuto almeno un cambio generazionale. Sono queste le certezze che possiamo assumere se pensiamo ad una bussola capace di indicarci una rotta critica”.

Ci sono delle novità che possono andare oltre la moda del momento?

“Io vedo un grandissimo ritorno del Chianti grazie al lavoro di chi non vuole per forza piacere a tutti interpretando il vino come qualcosa di caratteristico, elegante, facile da leggere ma non banale. L’Etna ormai non credo sia una novità, mi riferisco ai rossi, fini, sapidi, davvero capaci di emozionare. E poi vedo la Campania bianca della Falanghina del Sannio, del Fiano e del Greco di Avellino, ma anche quella della Biancolella e dei vitigni di Costa oltre che del Pallagrello Bianco, della Coda di Volpe e dell’Asprinio. Nessuna regione ha tanti vitigni a bacca bianca capaci di raggiungere buoni risutati di livello nazionale ma anche internazionale”.

E per restare al Sud, su cui hai lavorato tanto?

“L’Aglianico del Vulture è un grande rosso, come il Gaglioppo calabrese. Poco conosciuti ancora, soffrono soprattutto della incapacità dei territori di esprimere una governance enologica. In Calabria sta uscendo benissimo il Magliocco nella provincia di Cosenza mentre penso che la grande sorpresa degli ultimi anni è il Primitivo di Gioa del Colle e di Manduria”.

Qual è il vino del Sud più sottovalutato?

“Sicuramente il Piedirosso, uva difficile in campagna e in cantina, ma tipica, antica e al tempo stesso moderna per la finezza tannica e la piacevole freschezza sempre difficile da governare”.

A tuo giudizio il ruolo degli enologi nello sviluppo della viticultura del Sud è stato rivelante?

“I progressi negli ultimi 25 anni sono ormai sotto gli occhi di tutti e sono stati resi possibili da un lato per la nascita di una generazione  di enologi del Sud che ha maturato competenze ed esperienza e dall’altro perché praticamente non c’è grande enologo italiano che non abbia avuto voglia di misurarsi con i grandi vitigni del Mezzogiorno. Il risultato è stata una vera e propria Primavera enologica che credo non si sia mai vista dai tempi dell’Antica Roma. Ora quello che serve è la ricerca scientifica su questi vitigni, la maggior parte dei quali è ancora sconosciuta e la cui gestione spesso si basa sull’esperienza. In questo il ruolo dell’Enologia è fondamentale: direi che qui c’è la nuova frontiera da esplorare visto che sul comportamento delle uve internazionali ormai si sa quasi tutto.”

Ci sono dei modelli a cui rifarsi, territori da prendere ad esempio?

“Oltre le Langhe, due su tutti: Bolgheri, un vero e proprio miracolo italiano capace di attrarre investimenti e di imporre uno stile grazie alla lungimiranza dei primi produttori che non si sono chiusi, bensì aperti ai nuovi arrivi. In quel paesino toscano su 8000 abitanti ben mille lavorano nel settore, un vero esempio. Altro riferimento è la Franciacorta che in 50 anni ha creato un modello alzando sempre l’asticella con nove modifiche dei disciplinari. Non so se raggiungerà mai lo Champagne, ma una cosa è certa: non sarà mai insidiata da nessuno in Italia grazie al ragionamento produttivo impostato con grande serietà commerciale. E questo in un momento in cui tutti si sono messi a spumantizzare, fa la differenza”.

Torniamo alla critica, argomento sempre caldo. Secondo te le guide sono ancora utili?

“Come sai, collaboro a Slow Wine sin dalla nascita e non impiegherei il mio tempo in qualcosa in cui non credo. Le guide resettano la produzione ogni anno e credo che per un operatore sia indispensabile seguirle. Naturalmente in Italia non c’è più l’ipse dixit di un tempo, ormai sono troppe, ma all’estero è il primo strumento a cui si rivolgono coloro che lavorano nel vino. Per me la guida reale deve fare scelte ma non essere necessariamente respingente verso modelli produttivi che non piacciono. L’importante è cogliere la coerenza del progetto vino di ciascuna cantina, poi si può condividere o meno, ma questo è un altro discorso. Il professionista si distingue dall’appassionato perché è chiamato a esprimere il proprio di vista su tutto, non solo su quello che piace”.

Ma non è una formula un po’ vecchia?

“Sicuramente sì. Nel campo gastronomico la Michelin è ormai una guida interattiva, scaricabile gratuitamente. Bisogna pensare a qualcosa del genere anche per il vino, dare la possibilità a chi compra o legge di poter dire la propria, dare suggerimenti, bocciare anche il punto di vista della redazione”.

Secondo te sono utili gli uffici stampa?

“Se specializzati sicuramente sì. Purtroppo in Italia sono pochissimi e questo pesa nella comunicazione perché si tratta di un settore molto specifico nel quale le regole di marketing sono sicuramente valide solo se coniugate al modus operandi del comparto. Inoltre, rispetto a due o tre anni fa, saper stare sui social è diventato indispensabile. Consorzi e grandi gruppi farebbero bene a puntare su una risorsa interna che condivida la vita e il progetto su Twitter e Facebook. Le aziende piccole e medie, invece, devono solo essere se stesse e comunicare in prima persona.”

Non ci sono un po’ troppe manifestazioni dedicate al vino?

Finchè sono piene di gente e alle aziende conviene partecipare, direi di no.

Qual è il tuo sogno nel cassetto?

Un sistema paese in cui i territori siano specializzati e ben definiti come in Francia. Ma questo non avverrà mai.

4 Commenti

  1. Dr.Pignataro lei è quanto mai contemporaneo nelle sue riflessioni, con uno sguardo rivolto al futuro.
    Chapeau!

  2. Godibilissimo,ma da domani che ognuno rientri nel suo ruolo.PS.D’accordo sul piedirosso.L’ultima emozione personalmente l’ho avuta da una bottiglia di questo vino prodotto nei campi flegrei :senza esagerare posso affermare che mi sembrava di bere un grande pinot noir.FM.

  3. Se mi è consentito vorrei fare una domanda al gentilissimo dottor Pignataro,che forde esula dall’argomento o forse no.Ecco,negli anni Sessanta mio padre gestiva un negozio di vini ed olii.io ragazzino ricordo che tra i vini imbottigliati .i soliti chianti(cecchi e ruffino)l’amabile Orvieto,il Frascati Marino e un qualche Valpolicella e Verdicchio,i vini Campani erano il Capri,ricordi il Lacrima Christi e casa DAmbra.Ebbene ogni settimana si scaricavano diverse botti di vino rosso proveniente dal Veneto,che poi veniva venduto sfuso come Terzigno con i famosi erogatori ! La domanda che ora io mi pongo a distanza d’anni è questa,ma tutto il vino che si produceva in campania che fine faceva? Grazie.

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