Reportage | Cozza Tarantina, ecco il segreto dei pescatori per capire perché è la più buona del mondo


Cozza Tarantina

Francesco Mariella pescatore

Francesco Mariella pescatore

di Monica Caradonna

«La gente che capisce mangia la cozza tarantina. A ci ten’ u nas’ non può sbagliare». Chi ha naso non può sbagliare dice Luciano, pescatore da generazioni, mentre parla guardando davanti a sé il mare che si increspa. La barca procede lenta, quasi come se si andasse a remi. Il cielo è carico e le nuvole si rincorrono. In lontananza si intravedono le boe che reggono gli “stramazz”, le reti alle quali sono attaccati i semi che daranno vita ai mitili; ci sono a filo d’acqua i pali delle cozze; si intravede quello che chiamano lo stenditoio, sul quale come un mantra si ripete ogni giorno, a giro, l’operazione dell’asciugatura.

Cozza tarantina

Cozza tarantina

La prua è diretta verso il “citro”. È il più grande tra i trentaquattro che si contano sparsi in quel fazzoletto di mare tra il Ponte e l’”appizzic’ e stut”, come Luciano e Ciccillo chiamano il faro, quella guida certa per i viaggiatori del mare.  I citri, dunque, quelle piccole sorgenti di acqua dolce, al centro del secondo seno del Mar Piccolo, dove nascono le cozze più buone al mondo.

Siamo a Taranto, la città dei Due Mari e dei tre ponti. La città che già in epoca romana, nell’era di Traiano, era riconosciuta dall’Impero come centro nevralgico della molluscocoltura. La città in cui il vescovo Giuseppe Capecelatro, a fine ‘700, decise di raccogliere le diverse conchiglie frutto di quel mare pescoso per farne dono alla “Sacra Imperiale Maestà Catterina II, sovrana autocratrice di tutte le Russie”. Così riportano le cronache dell’epoca. Un omaggio prezioso, fattole recapitare da Giovanni Paisiello, quel talento tarantino, adottato dalla Napoli più classica, che ha prestato genio e opere nei più importanti casati d’Europa.

La cozza tarantina è celebrata nella storia. E questo non è un caso.

Ora è presidio Slow  Food con 21. mitilicoltori coinvolti nel progetto, il cui disciplinare stabilisce rigidamente le modalità di produzione, sono attualmente 21, soprattutto figli e nipoti di allevatori che hanno fatto questo mestiere per anni. Le richieste di adesione continuano però ad aumentare: segno della volontà di lasciarsi alle spalle l’immagine che per troppi anni ha accompagnato Taranto, riprendendosi quella vocazione storica legata al mare e alle sue eccellenze.

La cozza di Taranto Presidio Slow Food

A Taranto la mitilicoltura è una questione serissima e molto antica: i primi documenti che fanno riferimento alle cozze nere risalgono al 1525, e già nel 16esimo secolo i reggenti tarantini mettevano per iscritto regole precise per evitare il sovrasfruttamento delle lagune costiere. E per secoli così è stato, almeno fino agli ultimi decenni del secolo scorso quando, in concomitanza con lo sviluppo industriale della città, anche l’allevamento di molluschi ha risentito degli effetti del progresso tecnologico.

Cozza tarantina

Cozza tarantina

È unica, riconoscibile, non duplicabile, perché solo a Taranto, nello spazio di mare chiuso dal Ponte Girevole, opera di fine ingegneria degli inizi del ‘900, si sono verificate condizioni pedoclimatiche che non esistono in alcun altro luogo al mondo. «La leggenda narra che san Cataldo, il nostro Patrono, avesse perso il suo anello nel mare e che da lì si fossero formati i citri» racconta Luciano Carriero, presidente della cooperativa Mitilicoltori tarantini. Di fatto, si tratta di sorgenti di acqua dolce frutto di una intensa attività carsica che portano dall’alta Murgia sino allo Jonio acque che, in un fondale che in media non supera i 14 metri, sono riuscite a erodere fosse profonde 30 metri.

Le cozze del Mar Piccolo

«L’acqua del Mar Piccolo non è così salata come quella del golfo o dell’acqua di mare in generale, perché è addolcita da numerose sorgenti fresche. Anche quando le onde si increspano, chiazze piatte, rotonde, che i tarantini chiamano “occhi di mare”, rivelano la presenza di queste sorgenti. Non v’è spettacolo più bello di queste chiazze rotonde, bianche, frammezzo alle onde azzurre del mare agitato» riportava il nobile tedesco Friedrich Leopold Stolberg nel suo “Viaggio in Germania, Svizzera, Italia e Sicilia”.

Tutto questo determina condizioni particolari in cui si verifica una costante diluizione della salinità che inevitabilmente conferisce caratteristiche organolettiche uniche ai mitili che qui vengono coltivati e che non possono essere replicate in altri allevamenti. È per questo che la Città è orgogliosa di questa sua ricchezza. Ed è per questo che il comune di Taranto e la sezione locale di Slow Food hanno dato vita a un protocollo che possa portare al riconoscimento delle cozze tarantine come presidio autorizzato dall’organizzazione di Carlin Petrini.

La corda in cotone su cui crescono le cozze di Taranto

La corda in cotone su cui crescono le cozze di Taranto

«Secoli di lavoro e conoscenza sono il presupposto della genuinità della cozza tarantina. Un prodotto che identifica un territorio come pochi altri, sul quale abbiamo investito risorse ed energie affinché la narrazione degli ultimi anni cambiasse direzione. Le cozze del Mar Piccolo sono eccezionali, a dicembre scorso hanno ottenuto la classificazione “A” che consente la loro commercializzazione senza passare dallo stabulatore, ma quel che è ancora più importante sta per accadere». Il sindaco di Taranto, Rinaldo Melucci, sin dal suo insediamento ha posto una grande attenzione sull’identità di una Città che troppe volte ha girato le spalle alla propria storia e alle proprie radici. E vuol cambiare verso. «Il nostro obiettivo – prosegue il primo cittadino – è rendere la cozza tarantina un presidio Slow Food, garantirle anche la Denominazione di Origine Protetta, farne quindi un simbolo di potente resilienza che cresca parallelamente alla transizione della città verso un’economia completamente sostenibile. Molto presto non avremo più necessità di difendere questo prodotto dai continui attacchi, ma dovremo solo promuoverne bontà e unicità. Taranto ha deciso di volersi bene e di volere bene a ciò che la distingue dalle altre città: il mare, la storia, i paesaggi, le tradizioni produttive. Compresa la cozza tarantina, uno scrigno di sapore che si apre alla gioia di ogni palato».

Luciano Carriero, Francesco MAriella e Vincenzo De Benedetto, presidente della condotta Slow Food Taranto

Luciano Carriero, Francesco MAriella e Vincenzo De Benedetto, presidente della condotta Slow Food Taranto

Un percorso di riconoscimento, quello con Slow Food, che potrebbe definirsi già a dicembre, come conferma il delegato tarantino, Vincenzo De Benedetto. Ed è sempre dalla collaborazione con i 22 pescatori della cooperativa Mitilicoltori tarantini che è stata lanciata la sperimentazione di sostituire alla plastica, da sempre usata per far attecchire il seme della cozza, una corda in cotone naturale. «L’idea è venuta osservando la lavorazione di un altro prodotto caro a Slow food, il capocollo – spiega Vincenzo De Benedetto – e le prove fatte sino ad ora hanno dato ottimi risultati. Vogliamo associare alla cozza tarantina un’etichetta narrante in cui l’intera filiera venga raccontata come un valore unico di storia e di sostenibilità».

E a quel punto, bisognerà «diffidare da chi compra le cozze altrove e le coltiva in Mar Grande» rilancia Luciano. «La cozza di Taranto è quella che si produce nel Mar Piccolo; si riconosce per il suo sapore, ma anche per le sue dimensioni. Il frutto è più piccolo, è meno gonfio delle altre ed è estremamente saporito. Noi qui lavoriamo tutto a mano senza far ricorso a tecnologie. Nel Mar Piccolo si mette a dimora il seme fino a che nasce “u pidocchie” (così chiamano la cozza appena formata – ndr); a febbraio formiamo i pergolati e viene cambiata la rete passando a una dallo spessore più grande». Si fa quello che in dialetto chiamano “spelam” un procedimento che grazie all’uso di un tubo – sul modello della realizzazione delle salsicce – consente l’innesto su un’altra rete. Ogni quaranta giorni si ripete, poi, il rito della “sciolinatura”. Il prodotto si mette ad asciugare sugli stenditoi, un sistema ancestrale di pali incastrati, sui quali per ventiquattr’ore le cozze si asciugano in modo da far morire i piccoli parassiti che si depositano sui gusci. E solo nel mese di maggio, dopo14 mesi dal suo innesto, la cozza arriva alla dimensione commercializzabile.

La festa di San Cataldo

Sì, solo dopo San Cataldo si mangiano le cozze». Dall’8 al 10 maggio la città si paralizza per la festa del suo Santo Patrono, quello che ha dato origine ai citri, quello che ama i forestieri e che dà il via alla commercializzazione delle cozze tarantine. Intanto Luciano e i suoi 22 “padroncini”, con i quali produce 30mila quintali di cozze l’anno, ogni giorno ripete il suo rituale, con la sveglia alle 4 del mattino, quando fuori è ancora buio, e una passione che lo fa quasi dispiacere ogni qual volta deve vendere il suo prodotto perché alla fine gli altri «ce capiscon della fatica».

Luciano Carriero e Francesco detto Ciccillo all'inerno del citro. Alle spalle è evidente la differenza tra il mare increspato e l'acqua ferma proveniente dalla sorgente sotterrnaea

Luciano Carriero e Francesco detto Ciccillo all’inerno del citro. Alle spalle è evidente la differenza tra il mare increspato e l’acqua ferma proveniente dalla sorgente sotterrnaea

 

cozza tarantina