Taverna a Santa Chiara di Napoli, chiocciola Slow Food
La Taverna a Santa Chiara di Napoli e la Tiella premiata
di Alfonso Sarno
Cucina tenacemente legata al territorio, accoglienza informale che ricorda le taverne di una volta dove chi vi andava era subito accolto e considerato un amico e non un anonimo cliente, materie prime selezionate con cura e, soprattutto, tanta passione che smuove le montagne e riesce
a superare ogni ostacolo. È questa la filosofia della “Taverna a Santa Chiara” di Napoli, presente nella edizione 2025 di Osterie d’Italia di Slow Food e premiata insieme con altri 38 locali campani con la Chiocciola per la sua storia, l’ambiente, la cucina in perfetta aderenza con lo spirito dell’associazione fondata da Carlo Petrini e, soprattutto, per la sua interpretazione della scarola e fagioli. Ovvero il cosiddetto “pignato magro”, dimesso parente di quello “grasso”, la minestra maritata presente sulle tavole natalizie napoletane, versione locale dell’olla podrida fatta conoscere ai napoletani nel 1300 dai dominatori spagnoli e caratterizzata dall’abbondanza di carni di vario tipo come scriveva Ippolito Cavalcanti duca di Buonvicino nel suo libro “Cucina teorico-pratica” del 1837 dove raccomandava di usare «un pezzo di carne di giovenca grassa, un cappone imbottito, una gallina paesana, un salsiccione e salsicce cervellate”.
Tripudio di carni da fare “sposare” in una sontuosa, lunga cerimonia con le diverse verdure che non si ritrova nell’ugualmente saporito “pignato magro”, piatto povero e salutare a base di scarole, fagioli cannellini, aglio, olio extravergine d’oliva, pane raffermo. Piatto cult della taverna adiacente alla Basilica francescana di Santa Chiara e profondamente inserita nella vita del quartiere: pochi tavoli ed un menu classico, semplice, fatto di piatti di tradizione e che privilegia il rapporto con i piccoli produttori locali. «Noi – racconta Nives Monda che con Potito Izzo, Antonio Russo e l’aiuto della signora Giovanna conduce il locale – vogliamo raccontare attraverso il cibo la storia della nostra terra, i diversi anelli della filiera alimentare, dare a quello che offriamo ai nostri clienti una connotazione etica».
Un menu snello, classico ed ancorato al territorio che offre ai clienti pasta e cavoli, ziti e carne alla pizzaiola, pasta e fagioli o lenticchie, spaghetti con il soffritto, polpette al sugo o fritte, braciole e baccalà oltre alla premiata scarole e fagioli, summa delle migliori tipicità campane. «Per la nostra zuppa – racconta Nives Monda – usiamo il fagiolo dente di morto di Acerra, un tipo di cannellino dal colore bianco opaco che, appunto, lo fa assomigliare ai denti di un morto, presidio Slow Food della Campania e fino agli anni Settanta molto coltivato tanto da essere esportato con fortuna anche in America. La preparazione è semplice: mettiamo i fagioli a bagno, poi li cuociamo insieme con una foglia di alloro e, a parte, lessiamo le scarole. In una pentola bassa facciamo soffriggere leggermente aglio ed olio extravergine d’oliva insieme con un po’ di peperoncino ed aggiungiamo, infine, insieme con le rispettive acque di cottura, i fagioli e le scarole facendo cuocere fino a quando non si siano amalgamati ben bene. Saliamo e serviamo con pane tostato e con un filo di olio a crudo». Un piatto semplice che ha conquistato i giudici dello Slow food per la sua interpretazione e, soprattutto, per la cura e la scelta dei diversi ingredienti, tutti espressione della tradizione agricola locale. «Per noi – conclude Nives Monda – è l’unica maniera possibile di fare ristorazione. Vogliamo e siamo inseriti nel quartiere di cui siamo parte integrante, le porte del locale sono sempre aperte. Da noi si passa non soltanto per mangiare ma anche per un saluto, per condividere un caffè o aspettare, tutti insieme, come in una famiglia, che il piatto sia pronto