Fulvio Pierangelini lancia l’allarme: troppo omologazione tra i top chef mondiali. Giovani, pensate più al gusto e meno all’immagine


Fulvio Pierangelini

Fulvio Pierangelini

di Giulia Gavagnin

C’è stato un momento, nei primi anni Duemila, in cui tutti tiravano per la giacca (più precisamente: per la casacca) Fulvio Pierangelini. Era lui la star degli chef e lo chef delle star, l’interprete autentico della cucina italiana, il mago della passatina di ceci e gamberi, il Pelè dei fornelli baciato in fronte da Dio. E’ stato il patron del “Gambero Rosso” a San Vincenzo, provincia di Livorno, dove si incrociavano casualmente sul lungomare le famiglie con sdraio e ombrelloni in spalla e i pellegrini diretti alla Mecca del gusto: la sua, alla quale (si narra) ammetteva solo chi vi riteneva degno.

Forse è solo leggenda, ma qualcuno dice che negli ultimi anni le prenotazioni le prendesse lui in persona, per non circondarsi di persone sgradevoli. Peculiarità di un uomo dal carattere introverso, ma di idee e spessore culturale fuori dal comune. Il Gambero Rosso non esiste più da molti anni ma Fulvio Pierangelini, oggi consulente per un’importante catena alberghiera, ha ancora molto da dire, alla “sua” maniera: soprattutto ai giovani che hanno scelto il suo mestiere, quello di “cuoco”. Non di “chef”, termine militaresco che indica colui che comanda.

E’ sua la lectio magistralis dal paradigmatico titolo “Oltre l’immagine” che ha concluso l’anno accademico del Master della Cucina Italiana presso l’Università del Gusto di Creazzo (VI), istituzione che ogni anno sforna una quindicina di giovani cuochi altamente qualificati e pronti per gli stages nelle più prestigiose cucine italiane. Un mondo di cui Pierangelini è stato a suo modo un guru, ma che oggi non riconosce più.

I motivi? La sovraesposizione mediatica della cucina e il conseguente, inevitabile culto dell’immagine, che induce il pubblico a una prospettiva strabica: l’estetica ha preso il sopravvento sul gusto, conta di più postare l’immagine di un piatto sui social network che vivere l’esperienza gustativa, che dovrebbe essere il fine ultimo della cucina. Invece, oggi, i cuochi antepongono le composizioni ornamentali e le sequenze cromatiche del piatto a una seria ricerca del sapore. Dimenticando che “l’immagine non ha gusto”.

Pierangelini stupisce, quando proietta le immagini di quattordici piatti di varie cucine stellate del mondo, da Lisbona a Bangkok, da Washington a Parigi, tutti drammaticamente uguali, con gli stessi disegni, le stesse cialdine, le stesse cotture. In un caso, persino, quattro dessert identici in quattro diversi continenti. “Oggi ognuno vuole essere creatore, ideatore, artefice, dal maschietto inesperto che intruglia la domenica in cucina ai cuochi professionali”, dice. E’ questo il paradosso contemporaneo: il mito del cuoco artista e narcisista, che vuole creare a tutti i costi ma finisce per copiare il collega di un altro paese, che opera in diverse condizioni ambientali e climatiche, con materie prime differenti. L’asserito artista è in realtà un riproduttore seriale di mode e idee altrui, utilizza prodotti omologati a danno, magari, di materie prime locali: capperi liofilizzati delle Baleari invece di quelli profumatissimi di Scopello.

Secondo Pierangelini il cuoco contemporaneo, invece di innescare gare di “copiatura” con i colleghi di tutto il mondo dovrebbe essere “responsabile” prima che creativo. “Cucinare”, dice, è un “atto sociale”. “Il cuoco prepara e cuoce cibi, trasforma specie animali o vegetali  che vengono sacrificate per la nostra sopravvivenza”.

Azzarda persino: “il cuoco è l’ultimo baluardo contro la massificazione del gusto e la supremazia delle multinazionali”. Per adempiere al suo ruolo sociale il cuoco dovrebbe privarsi di pinzette, fiorellini edibili, micropetali ornamentali e ritornare al dialogo con la materia prima, toccarla, accarezzarla. Puntare sulla semplicità, non sull’effetto a ogni costo. Non dovrebbe avere paura di essere imperfetto nell’esecuzione, perché l’eccessiva manipolazione nel tentativo di raggiungere la perfezione isterilisce il risultato finale.

Dovrebbe impadronirsi delle regole per poterle infrangere, per comunicare emozioni e non immagini, per arrivare a essere “come Michelangelo che trovò la perfezione nell’incompiutezza della Pietà Rondanini”. Emozione, conoscenza, semplicità, responsabilità. Una bella sfida per i giovani cuochi nell’epoca della cucina mediatica.

Fulvio Pierangelini

Un commento

  1. Sono stato al Gambero Rosso ad apprezzare la cucina creativa ed originale di Pierangelini. Un modo di presentarsi e un modo di cucinare che lasciava estasiati. Mi piacerebbe che Fulvio ritornasse ai fornelli, in Toscana o altrove per consumare ancora le sue creazioni.

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